Ticino

Nel 2021 Regazzi teme 'fallimenti e ristrutturazioni'

Intervista al presidente di Aiti sulla situazione economica, il lavoro durante il lockdown e il rapporto tra politica, impresa e sindacati

(Ti-Press)
1 ottobre 2020
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Anche dopo aver resistito al lockdown, il rischio per l’industria ticinese è quello di pagarne cari gli strascichi: «Il blocco di forniture e ordini ha già colpito duramente settori come l’automobile, l’aeronautica, l’orologeria e la meccanica di precisione. Il tessuto industriale ticinese ha dimostrato di reggere bene, ma con la fine delle indennità per lavoro ridotto il rischio è quello di assistere a fallimenti e ristrutturazioni». A dirlo è Fabio Regazzi, il presidente dell’Associazione industrie ticinesi (Aiti) che si riunirà oggi in assemblea.

Regazzi, cosa ci aspetta nel 2021?

Nessuno di noi può dirlo con certezza. Ma il mercato globale è come un transatlantico: una volta fermato, ci mette tempo per tornare alla velocità di crociera. E non è scontato che vi torni. Dato che il nostro settore dipende per l’85% dalle esportazioni sarà difficile che riusciremo a compensare le perdite in tempi brevi, tanto più che il nostro è stato il cantone più colpito dalla pandemia. Questo rischia di costringerci anche a limitare gli investimenti, perdendo competitività.

Cosa può fare la politica?

La politica può aiutare ad esempio nel caso in cui sia necessario prolungare l’indennità di lavoro ridotto per evitare licenziamenti, e rinunciare nei cosiddetti ‘casi di rigore’ a incassare i crediti Covid. L’appello va anche ai partner sociali, noi inclusi: nei limiti del possibile, dobbiamo evitare sterili contrapposizioni per raggiungere l’obiettivo comune di salvaguardare l’occupazione.

Col senno di poi, si sarebbero potute evitare certe restrizioni alle attività economiche?

Nella situazione in cui ci siamo trovati è comprensibile che le autorità volessero optare per la massima prudenza. Scelte condivisibili, gestite con una certa flessibilità. 

La sua azienda però ha continuato a lavorare durante il lockdown. Eppure quello delle tapparelle non è un settore di vitale importanza.

È vero, ma abbiamo sempre operato – come d’altronde molti altri – con le autorizzazioni necessarie, garantendo la massima sicurezza dei nostri operai e facendo solo l’indispensabile. Avevamo ordini di clienti nel resto della Svizzera, dove i nostri concorrenti continuavano a lavorare. Perdere le commesse sarebbe stato devastante. Posso capire che data la mia visibilità le critiche si siano concentrate su di me, ma ho la coscienza a posto.

Quando identifica i margini di miglioramento dell’industria ticinese, parla spesso di cultura imprenditoriale. In che senso?

Chiaramente è un discorso di medio e lungo termine, un lavoro di sensibilizzazione sul nostro modus operandi. Abbiamo un problema al quale è inutile girare attorno: c’è una quota importante di manager che non vengono dal nostro territorio, e hanno una mentalità che a volte mal si concilia con la nostra. Penso ad esempio al dialogo coi sindacati, che in Italia è più barricadero.

Eppure molta della tradizione imprenditoriale viene storicamente da fuori: dall’Italia e da oltre Gottardo. Fa del ‘primanostrismo’?

Lungi da me. Ma molte aziende che hanno fatto la storia del nostro cantone sono gestite da famiglie e imprenditori ticinesi, radicati nel territorio: mio padre ne è un esempio. Poi il settore ha assunto dimensioni diverse e l’ingresso di altri protagonisti è stato inevitabile. Va bene, ma serve uno sforzo comune per comprendere regole e comportamenti.

Al di là della cultura, servono regole? I sindacati insistono sull’importanza di espandere i contratti collettivi di lavoro.

Trovo che il Ccl sia un ottimo strumento per l’industria e per la pace sociale, purché presupponga il partenariato tra sindacati e imprenditori; resto scettico all’idea di renderlo universalmente obbligatorio con atto legislativo. Un contratto è un atto volontario, non un’imposizione. Noi ci siamo, ora i sindacati facciano le loro proposte.

Giunge alla fine il suo secondo mandato all’Aiti, una commissione cercherà il successore. Con quali caratteristiche?

Dovrà trattarsi di un imprenditore o di un alto dirigente, con buone capacità di comunicazione. Dovrà anche conoscere da vicino i meccanismi della politica, dato che le sue decisioni ci toccano in modo diretto e indiretto.

Il rischio però, quando si ha un piede nella politica e l’altro nell’impresa, è il conflitto d’interessi.

Ma questo vale anche per i sindacalisti e gli ambientalisti. Noi fortunatamente abbiamo ancora un sistema di milizia, la politica non è una professione a sé stante. Io faccio l’imprenditore e il Consigliere nazionale, ma penso che il problema del conflitto d’interessi vada relativizzato. Certamente occorre dichiarare i propri legami esplicitamente – come faccio sempre a Berna – e agire con correttezza. Purché non privilegi il suo tornaconto personale, un imprenditore ha diritto di portare in aula le rivendicazioni della sua categoria, proprio come fanno i sindacalisti: così contribuisce a un confronto più concreto, svolto con cognizione di causa.

Come Aiti avete sostenuto il congedo paternità. Ora però lei assumerà la presidenza dell’Unione svizzera arti e mestieri (Usam), l’organizzazione-mantello di piccole imprese e artigiani che si è schierata con toni molto forti a favore del no.

Io non ho approvato questa posizione e ho trovato la campagna sopra le righe, anche se capisco certe riserve. In futuro non andrò certo contro i miei principi, ma è chiaro che poi le decisioni andranno prese collegialmente.

STATUTO SPECIALE

'No a un Ticino piagnucolone'

«Guardiamo la parte piena del bicchiere, anche se magari non arriva a metà: rispetto al 2014, quando l’iniziativa ‘Contro l’immigrazione di massa’ fu plebiscitata col 68% dei sì, stavolta il fronte dei favorevoli si è fermato al 53%». Regazzi ammette la sconfitta in Ticino, ma resta ottimista: «Sempre più ticinesi colgono l’importanza degli accordi bilaterali». Semmai resta il problema dell’ostilità contro i frontalieri: «A volte manca la consapevolezza di quanto siano importanti, come hanno dimostrato durante l’emergenza sanitaria. Certo, qualche abuso si registra, ma va messo in relazione coi numeri: in un sistema economico che conta 67mila frontalieri e 220mila addetti, i casi di abusi riscontrati dall’ispettorato del lavoro ogni anno sono circa 4mila. Anche un singolo abuso è di troppo, ma ricordiamoci che parliamo comunque di una percentuale inferiore al 2%».

Anche il direttore di Aiti Stefano Modenini parla della votazione come del «risultato migliore negli ultimi vent’anni», pur riconoscendo che «la popolazione subisce certe situazioni che si riflettono poi sull’esito». Ma non ritiene opportuna l’adozione di uno statuto speciale per il lavoro e l’economia: «Non condividiamo questa visione di un Ticino ‘piagnucolone’ che va a Berna col cappello in mano. Abbiamo delle leggi sul lavoro efficaci, che semmai vanno potenziate: il Ticino fa parte della Confederazione, ed è all’interno di essa che i partner sociali possono affrontare la situazione».

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