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Merlani: ‘Mi preoccupano un po’ i casi d’importazione’

Il medico cantonale fa il punto su quello che ci aspetta, tra frontiere aperte e influenze autunnali

Il medico cantonale Giorgio Merlani (Ti-Press)
30 giugno 2020
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Ora che sono riaperte le attività economiche e gli spazi pubblici, e anche viaggiare da un paese all’altro torna possibile, ci chiediamo tutti cosa possiamo aspettarci per il futuro. Il medico cantonale Giorgio Merlani non è un indovino, ma di sicuro può guidarci in una riflessione informata.

Dottor Merlani, l’estate è iniziata con una gran voglia di mettere il naso fuori di casa e magari di tornare a viaggiare. Le attività sono ripartite in modo molto rapido e le frontiere sono aperte. La cosa la preoccupa?

Devo dire che la ripartenza mi ha stupito positivamente: temevo che potesse essere difficile tenere sotto controllo la pandemia con riaperture così veloci, invece evidentemente la disciplina di tutti ha permesso di evitare nuovi picchi. Altro discorso per la questione dei viaggi all’estero o in altri cantoni: sinceramente mi preoccupa un po’ il rischio di casi ‘importati’ dall’esterno, da situazioni e paesi che al momento attuale hanno una diffusione del virus maggiore della nostra. Sarebbe sbagliato fare allarmismo, ma vediamo già in Svizzera diversi casi arrivati dall’estero. E anche in Ticino, pur su numeri bassissimi, si nota una prevalenza di contagi dall’estero o da altri cantoni nei quali ora l’incidenza del virus è più alta che da noi, che siamo a un caso su 150 tamponi. Quindi resta l’incognita di cosa succederà con i ticinesi che si recano in altri paesi e con le persone che da fuori cantone si recano qui in vacanza.

C’è chi ipotizza che le temperature calde dell’estate indeboliscano il virus.

Si tratta di illazioni pericolose, anche perché il virus sopravvive nel corpo umano a 37 gradi e poi, come vediamo in Germania, il virus rimane aggressivo. Ad aiutare in estate è semmai il fatto di stare meno al chiuso, in ambienti ristretti, dove tocchiamo tutti gli stessi oggetti. Ma non è una ragione per fare meno attenzione.

Dopo l’estate verrà l’autunno, e con esso l’influenza stagionale. Come si farà a distinguerla dai casi di Covid-19?

Questa sarà un’ulteriore sfida, anche perché non è detto che la nuova influenza si riveli insolitamente blanda come quella della scorsa stagione. Oltre a sovraccaricare il sistema sanitario, i sintomi simili delle due patologie rischiano di accavallarsi, rendendo più difficili la diagnosi e la gestione terapeutica. Per questo ci stiamo preparando per riuscire subito, ad esempio a livello di pronto soccorso, a fare tutti i test rapidi necessari per isolare i casi influenzali da quelli di Covid-19, e attuare procedure idonee per trattare gli uni e gli altri in modo ben separato. Molto utile sarà anche un’ampia campagna di vaccinazione contro l’influenza, che dia naturalmente la priorità agli anziani e agli immunodepressi, ma coinvolga anche più adulti e bambini possibile: proprio questi ultimi sono un forte veicolo di contagio.

Cosa che si è invece dimostrata non vera per il coronavirus, a dispetto delle ipotesi iniziali.

Quando arriva un nuovo virus, la scienza cerca di formulare ipotesi anche sulla base delle esperienze passate, ad esempio la Sars del 2003. Si mette la nuova epidemia in vecchi cassetti, per così dire, e può essere solo l’esperienza a correggere certe previsioni: è quanto accaduto per la contagiosità dei bambini, ma anche per quella – peraltro ancora difficile da misurare con esattezza – delle persone asintomatiche. Ora sappiamo molto di più anche sui sintomi, che trascendono quelli influenzali e possono includere disturbi gastrointestinali, una semplice spossatezza o, appunto, nessuna particolare avvisaglia. E coi test sierologici a campione che stiamo svolgendo potremo capire ancora di più sul quadro locale.

Fermo restando che col senno di poi son tutti professori, ha avuto senso un lockdown così drastico?

Anzitutto occorre precisare cosa si intende per lockdown. Le misure restrittive sulle attività e gli assembramenti sono certamente risultate molto efficaci. Se invece per lockdown intendiamo il fatto di chiedere di rimanere chiusi in casa, si può dire che l’efficacia è stata più modesta: ma solo perché il fermo delle attività aveva già significativamente rallentato le occasioni di contagio.

Il presidente del Consiglio di Stato Norman Gobbi è parso escludere un secondo lockdown in caso di un nuovo picco. Concorda?

Premesso che non compete a me giudicare, credo che si dovrà comunque decidere in funzione dell’evoluzione degli eventi, ma allo stato attuale penso in effetti anch’io che eventuali recrudescenze potrebbero risultare meno violente e quindi gestibili anche senza serrate totali e l’invito a restare chiusi in casa. Bisogna anche tenere conto dei costi di una chiusura: non solo quelli economici e sociali, ma anche quelli che riguardano la salute pubblica.

In che senso?

Intanto, abbiamo visto che le restrizioni imposte dall’emergenza hanno avuto un significativo impatto psicologico su parte della popolazione: un impatto che si è tradotto in crisi famigliari e maggiori episodi di violenza giovanile, ad esempio. Poi c’è stato il problema di chi – per paura del contagio o per non sovraccaricare le strutture ospedaliere – ha rimandato le cure per patologie pregresse, arrivando in ospedale con situazioni già compromesse. Non escludo che questo ne abbia aumentato anche la mortalità. D’altronde, per un paio di mesi nei pronto soccorso si sono quasi azzerati i casi di persone che presentavano dolori al petto, mentre si direbbe aumentata la morte improvvisa da arresto cardiaco. Segno che infarti e altri problemi cardiocircolatori sono sfuggiti dai radar durante il lockdown. Infine, sono calati perfino i vaccini infantili.

Il ruolo del medico cantonale riflette obblighi istituzionali che altri suoi colleghi non hanno, e la necessità di concordare ogni decisione ed esternazione con il governo. Si è sentito imbavagliato?

Mi pare normale che certe decisioni vengano prese insieme, anche perché come detto non si può trattare il virus in astratto, senza valutare le conseguenze delle proprie scelte su tutte le altre variabili sociali. Abbiamo discusso sempre a lungo, ma si è arrivati a soluzioni che io ho pienamente condiviso.

Però la task force esclusivamente scientifica della Confederazione ha giudicato le riaperture precipitose. E nel corso della crisi molti suoi colleghi, anche in Ticino, hanno espresso indicazioni divergenti rispetto alle vostre.

In casi ancora poco studiati il dibattito scientifico è necessariamente ricco di posizioni, ma faccio notare che anche chi non riveste ruoli istituzionali ha espresso opinioni molto divergenti: ad esempio c’era chi chiedeva una chiusura precoce e chi invece criticava quella stessa misura. Segno che su tanti aspetti non c’erano ‘verità’ scientifiche univoche, messe a tacere da chissà quale complotto, ma una serie di posizioni e ipotesi più o meno fondate e condivisibili. D’altronde non si può esigere dalla scienza quella certezza immediata e univoca che non può dare, data la sua natura sperimentale e considerato il contesto pieno di incognite.

A proposito di cose che ora sappiamo: si conferma una correlazione tra la qualità dell’aria e l’incidenza del coronavirus?

Occorre distinguere la correlazione dai rapporti causali. Sarebbe avventato sostenere che l’inquinamento ha un ruolo fondamentale nell’esito della pandemia; ma è anche vero che qualsiasi virus tende a colpire più facilmente chi ha un sistema immunitario e respiratorio indebolito, e a tale indebolimento contribuisce effettivamente anche il vivere in contesti inquinati.

Intanto tutti aspettano il vaccino: chi tra un mese, chi tra un anno. Cosa dobbiamo aspettarci? E come avverrà l’eventuale immunizzazione sul territorio?

Non posso fare previsioni sullo sviluppo del vaccino. Quanto alla somministrazione, dipenderà molto anche dalla sua tipologia: ci sono vaccini che non hanno effetti collaterali e possono essere somministrati in massa, ad esempio in strutture simili ai checkpoint. Altri che invece possono avere effetti collaterali più importanti, e in tal caso occorrerà far capo solo alle strutture sanitarie, rallentando il processo anche a parità di disponibilità. Infine conterà molto il contesto in cui ci troveremo: fermo restando che la priorità va alle categorie più vulnerabili e al personale sanitario, la rapidità d’intervento sul resto della popolazione dipenderà dalla gravità dell’emergenza.

L’immunità di gregge resta invece un’utopia?

Piuttosto direi una distopia. Sarebbe teoricamente possibile raggiungere il 60% e più di popolazione contagiata, ovvero i numeri verosimilmente necessari a fermare la diffusione del virus. Ma ci si lascerebbe dietro un’enorme quantità di morti e un collasso di qualsiasi sistema sanitario, anche il più avanzato.

Intanto si continua a discutere di mascherine, e c’è chi vorrebbe renderle obbligatorie sui trasporti pubblici.

Nel contesto epidemiologico attuale mi pare che l’obbligo sia eccessivo, anche perché i controlli risulterebbero insostenibili. Semmai sarebbe importante che le aziende di trasporto pubblico facessero sempre di più per sensibilizzare i viaggiatori, ad esempio mettendole a loro disposizione sui mezzi. Va ricordato che la mascherina – se di tipo chirurgico, indossata correttamente e con mani pulite – è molto più efficace per non contagiare gli altri che per proteggersi; in ogni caso, se tutti la indossassero su treni e bus le probabilità di contagio scenderebbero drasticamente.

A proposito di mascherine, nel corso dei mesi le informazioni sono state molte e contraddittorie.

Questo perché non erano mai stati effettuati studi abbastanza capillari e strutturati per capirne il ruolo in caso di pandemia. Ora sappiamo, ed è un bell’esempio di un fenomeno più generale: l’emergenza ha contribuito enormemente ad accelerare la conoscenza scientifica in ambiti finora più trascurati. Adesso è importante fare tesoro di questa lezione.

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