Ticino

Salari in calo, Marazzi: 'Serve un nuovo contratto sociale'

Salario mediano inferiore a quello del 2016, settori in sofferenza da anni, paragone impietoso col resto della Svizzera. E ora ci si mette anche il coronavirus

(Ti-Press)
25 maggio 2020
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Nel 2018 in Ticino, per la prima volta dal 2000, il salario mediano risulta inferiore a quello di due anni prima (vedi infografica). In media si perdono 200 franchi, il 3.6%. Una prima analisi mostra come a essere interessati siano molti settori, ma in particolare quello pubblico, la sanità, la finanza e gli studi di architettura e ingegneria. Se poi si vanno a vedere i singoli settori in prospettiva storica – a partire dal 2008, quindi osservando un orizzonte meno soggetto a sbalzi occasionali – si nota che a perdere più terreno sono state le manifatture tessili e dell’abbigliamento, l’informatica, la cultura e perfino la farmaceutica. In attesa di un’analisi più dettagliata su questo calo – spesso sollecitata dal Movimento per il socialismo al Consiglio di Stato – cerchiamo di capirci qualcosa con Christian Marazzi, economista e professore alla Supsi.

Professor Marazzi, cosa ci dice l’involuzione dei salari rispetto al lavoro ticinese nel suo insieme?

A preoccupare è anzitutto il fatto che mostrino la loro fragilità settori strategici per il presente e il futuro dell’economia e della società ticinese: arretrano l’istruzione e la pubblica amministrazione, l’ambito sanitario, perfino il farmaceutico dove i salari ammontano alla metà di quelli nel resto della Svizzera. Purtroppo è con queste fragilità pregresse che dovremo affrontare una crisi destinata a essere molto lunga. 

Va detto che in alcuni casi si potrebbe trattare di cambiamenti congiunturali meno preoccupanti: ad esempio la sostituzione di lavoratori andati in pensione con molti professionisti giovani, un fattore che potrebbe spiegare una parte del calo almeno per quanto riguarda il settore pubblico.

Sì, ma questo non basta a spiegare l’andamento storico in molti settori e il fatto che i nostri salari restino i più bassi della Svizzera. L’andamento generale è meglio spiegato da alcuni fattori che incidono più gravemente sull’insieme: un ricorso spregiudicato al dumping salariale, con un salario minimo troppo basso che rischia di incoraggiarlo anche sui salari medio-bassi; l’estrema frammentazione e segmentazione del mondo del lavoro, con il lavoro atipico che sta diventando il nuovo lavoro tipico, a discapito del posto fisso; tempi parziali sempre più brevi; i numerosi sottoccupati (9,6% nel 2018 contro il 7% del 2010, ndr); il lavoro a chiamata che ha superato il 5% del totale; il lavoro ‘neoindipendente’, ex dipendenti che sono dovuti diventare freelance per rispondere a logiche di ristrutturazione e outsourcing, come pure i tanti giovani dell'economia dei lavoretti.

Si direbbe che il ‘peccato originale’ dell’economia ticinese sia legato ormai da un secolo alla disponibilità di manodopera a basso costo.

Certamente questa disponibilità non invoglia a investire nell’innovazione tecnologica e in processi a intenso impiego di capitale. Sia chiaro, le eccellenze capaci di investire su ricerca e sviluppo ci sono, ma la leva del lavoro a basso costo è ancora ben presente. La cultura imprenditoriale sembra spesso ostaggio di una coazione a ripetere quanto fatto in passato, anche lontano, in nome di una competitività al ribasso.

Ora ci si mette pure il coronavirus.

E naturalmente questo choc ,che ha colpito tanto la domanda quanto l’offerta, va a colpire in modo particolarmente doloroso proprio le realtà ad alta intensità di manodopera, di ‘lavoro vivo’, come il Ticino. Parliamo di un cantone nel quale il 50% dei salariati si trova a lavoro ridotto, e deve affrontare riduzioni di reddito che possono arrivare al 25% del totale. A questo si aggiunge la situazione drammatica di molti indipendenti. Infine, non bisogna dimenticare che questa crisi crea ulteriori polarizzazioni all'interno del mondo del lavoro, con persone che possono passare allo smart working e altre legate invece a lavori in presenza fisica, più esposti alle difficoltà congiunturali oltre che ai rischi per la salute. 

Come se ne potrebbe uscire?

Penso che dobbiamo guardare a quei settori strategici che già da diversi anni dimostrano maggiore capacità di generare reddito e lavoro: sanità, socialità, formazione e ricerca, cultura. Oltre all'indispensabile svolta verde, lo sviluppo di questi settori permette di puntare a un modello economico ‘antropogenetico’, nel quale cioè l’uomo lavora per l’uomo, e non solo per il ciclo di produzione e consumo di merci. Una società della cura, meno esposta a crolli della domanda come quello che stiamo vivendo. In questa prospettiva le discriminazioni salariali, che fragilizzano il tessuto lavorativo e sociale, non sono ammissibili.

Cosa può fare la politica?

Anzitutto approfondire la conoscenza del mondo del lavoro. Litighiamo da anni su questo o quell’indice di disoccupazione, e rischiamo di non vedere la cosa più importante: prima della crisi, il Ticino si avviava sì verso la piena occupazione, ma un’occupazione precaria e inadeguata a preservare la dignità delle persone. Tanto che lo choc della pandemia l’ha rovesciata in ‘piena’ disoccupazione, potenzialmente cronica. Si tratta di contrastare un impoverimento che non è solo materiale, ma anche sociale e politico.

Come aiutare i redditi?

Trovo positivo che si stia tornando a parlare di un sostegno diretto ai redditi delle famiglie. Partiamo dalla premessa che per affrontare una crisi della domanda occorre ristabilirne le condizioni di base, che sono materiali oltre che psicologiche. Senza consumo l’investimento delle imprese, sempre più indebitate, viene inibito e non contribuisce al rilancio complessivo. Quindi ben vengano proposte come il ‘reddito di pandemia’, quello di base incondizionato o anche un’assicurazione generale contro la perdita di reddito, la stessa che si sta prendendo in considerazione nel canton Vaud per aiutare i cittadini che vivono una condizione occupazionale discontinua. La sicurezza del reddito è fondamentale per attraversare una recessione che ha dimezzato le attività produttive e si preannuncia molto lunga. 

Non sarà troppo idealista?

Purtroppo vedo che le stesse ideologie che hanno dominato la politica economica negli ultimi trent’anni stanno serrando di nuovo i loro ranghi. Però nella storia abbiamo visto che proprio in momenti di grande difficoltà, di lotta contro un nemico comune, si può trovare il consenso per soluzioni a difesa dei diritti sociali e della dignità di tutti: si pensi alla creazione di uno Stato sociale – in Gran Bretagna col piano Beveridge, ma anche altrove in Europa – al termine della Seconda guerra mondiale. Ecco: anche oggi sarebbe oltremodo necessario porre le basi di un nuovo contratto sociale.

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