Il reportage

Visti da 'loro' (gli italiani su 'Prima i nostri')

Mentre l'iniziativa arriva in Gran Consiglio, siamo andati in Italia a chiedere cosa ne pensano. Ritratto di una frontiera che divide e unisce allo stesso tempo

19 febbraio 2018
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Non più tardi di mercoledì arriva sul banco del Gran Consiglio l'iniziativa Udc 'Prima i nostri'. In vista del dibattito, siamo andati in Italia a chiedere cosa ne pensano...

Su ‘Prima i nostri’ al di là della ramina c’è confusione, soprattutto su cosa preveda. E questo è un fatto. Parli, chiedi, ti tuffi nel ‘paese reale’. Le risposte sono uniche per candore e stupore. «Ah sì? È contro i frontalieri?», «L’ha fatta il Nano Bignasca?», «Boh, io sono in pensione». È come se, attraversata quella frontiera, ci fosse veramente un altro mondo. Un mondo lontano, eccezion fatta per la lingua che forse – e purtroppo, alle volte – ci unisce tutti: quella dei soldi. Perché è quando la butti sull’economia, e non sulla politica lontana – «tutti ladri anche da voi?» – che il pallone torna a centrocampo e si ricomincia a giocare. «Quando parliamo della Svizzera dobbiamo solo star zitti, perché tutti, chi più chi meno, abbiamo guadagnato qualche soldo grazie a loro». La tocca piano Anna, calabrese arrivata a Lavena Ponte Tresa negli anni 50 dopo la guerra. Lo dice sicura, appena sente che c’è un giornalista dalla Svizzera che sta facendo domande qua e là nel bar a pochi passi dalla dogana. E il Campari rosso che ha davanti nonostante siano le 10 scarse del mattino non mistifica il suo pensiero, non lo fa uscire dai binari. Tutt’altro. Paradossalmente lo compone, lo rende ancor più sincero. «Vede, o si apriva un negozio qui e venivano a comprare la merce, o si andava a lavorare lì, e gli stipendi erano buoni. È inutile che oggi ci si lamenti se vogliono pensare ai loro disoccupati».

Una lucidità che cozza, e non poco, con il carnevale di risposte che colleziono nel resto della mattinata in giro tra negozi di ogni tipo e bar di ogni nazionalità. Sempre la stessa, la domanda: «Cosa pensate degli svizzeri che vengono qui?». Sempre diverse, le risposte. Al punto da credere di essere finito in tanti microcosmi diversi dove le regole le dettano il caso e il sentimento piuttosto che quella cosa per qualcuno stramba che risponde al nome di ‘principio di realtà’. C’è chi definisce gli svizzeri che vengono il fine settimana «come fossero dei conquistadores, ti trattano un po’ dall’alto in basso, sono imperiosi e hanno un certo atteggiamento di superiorità». Provi a difendere la causa, a chiedere se magari è una novità degli ultimi anni sa, la pressione sul mercato del lavoro, la questione salariale, l’immigrazione... ma è come una piuma sulla roccia: «No no, io è anni che sono in giro per il Varesotto, son sempre stati così». E il motivo? Si va dal sociologico «perché forse hanno un complesso con gli svizzeri che parlano tedesco» al tendente all’incarognito «ma spesso sono italiani che lì hanno trovato la fortuna e dicono ‘dopo di me chiudete la porta’, si dimenticano da dove sono venuti». Eppure il sentimento diffuso, e torniamo alla questione economica, è che senza svizzeri non si batta cassa. «Senza di loro avrei il negozio vuoto», dice una signora che vende abbigliamento. «La mia clientela è almeno al 30 per cento fatta da svizzeri, soprattutto nel fine settimana – risponde Cheng, simpaticissimo barista cinese che sono sicuro qualcuno abbia chiamato ‘Andrea’ – e tutti molto educati e gentili».

Ma è con Graziella, commerciante in valigie e borse, che finalmente il discorso trova un suo equilibrio. «Io sono qui da una vita, e con gli svizzeri non ho mai avuto alcun problema. Forse spesso non ci chiediamo fino in fondo cosa voglia dire andare a lavorare in un altro Paese: usi, costumi, tradizioni diverse. Bisogna sapersi integrare anche se vai lì solo per lavorare, è una questione di rispetto». Ma non solo, fa un paragone che forse un suo senso ce l’ha. «Quando parliamo della Svizzera – continua la commerciante – parliamo di una nazione che da decenni e decenni ospita, integra, assimila. Assume persone per lavorare, ha un’immigrazione continua. Ecco, noi in Italia siamo confrontati da poco con l’immigrazione di gente che scappa dalle guerre e alcuni già non ne possono più. In Svizzera si va a lavorare, ma la loro tolleranza è nota, attenzione ai giudizi». Fermandosi qualche secondo a guardare la Tresa, esattamente a metà tra le due dogane, ci si chiede quanto un fiume possa dividere e allo stesso tempo unire. Da quando l’Arcivescovo di Milano in età moderna aveva le sue peschiere per anguille. E già allora, a qualcuno la cosa non andava molto a genio. «Merce o valuta da dichiarare?». «No, niente». «Prego, passi».

 

 

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