Ticino

Ipus di Chiasso, parla un docente: ‘Sembrava tutto serio’

Nonostante il contratto firmato, però, i professori non sono stati pagati. Anche per questo il Tribunale federale ha confermato nel 2017 il fallimento della scuola

15 febbraio 2018
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«Della cifra pattuita, almeno io, non ho ricevuto un centesimo». A confermare quale fosse la prassi all’Istituto privato universitario svizzero (Ipus) di Chiasso, dichiarato fallito nel settembre 2016 dalla pretura di Mendrisio Sud, decisione in seguito confermata dal Tribunale federale, è Gino Petri, fisioterapista toscano che esercita la professione dal 1992 e assunto dall’Ipus per tenere dei corsi. Che non sono mai stati pagati. «Il contratto firmato ovviamente prevedeva un compenso – spiega Petri – ma prevedeva anche che io dovessi sborsare di tasca mia per il viaggio, il pernottamento e il cibo». Comunque sia, all’inizio, il tutto sembrava gestito seriamente. «Io e i miei colleghi siamo stati contattati attraverso persone che conoscevano i nostri lavori in ambito medico e di docenza. Io sono andato a Chiasso, con il mio curriculum, e dopo il colloquio ho aspettato la risposta. Ero contento di poter lavorare in Svizzera». Un lavoro che, però, non è durato a lungo. «Sono stato poco tempo all’Ipus. Ho fatto alcuni corsi e qualche stage, niente di che». Quello che è interessante scoprire è perché, almeno dal suo punto di vista, queste università all’estero, che spesso non hanno alcun riconoscimento, siano così appettite dagli studenti italiani. La risposta che ci dà il nostro interlocutore è la stessa già affidata alla ‘Regione’ da Sandro Rusconi, ex direttore della Divisione della cultura (vedi edizione dell’8 febbraio): la questione del numero chiuso. «Le persone partono dall’Italia per questo motivo – racconta il fisioterapista – ovvero i corsi a numero chiuso per i quali vengono fatti i bandi d’accesso. Facciamo un esempio: mettiamo che in tutta la Regione Lombardia siano messi a disposizione 300 posti per fisioterapia e che si candidino in 2’000. Gli altri 1’700 che fanno?». Semplice, provano altre strade. Che però Petri tiene a ribadire «non sono escamotage. I piani di studio, in Svizzera come nell’Est Europa o in Spagna (Paesi dove queste scuole sono più diffuse, ndr), vengono preparati seguendo quelli delle università italiane. La parte carente in tutto il discorso è quella relativa al tirocinio». Sì, perché se in Italia ci sono corsi universitari da 180 crediti formativi che vedono almeno la metà di questi ottenuti tramite il tirocinio, la stessa cosa non si può dire delle scuole private estere. «Da noi il tirocinio è parte essenziale, fondamentale. Inizia già dal primo anno. Spesso capita che al rientro da questi corsi all’estero, il Ministero responsabile prima di riconoscere il diploma chieda di completare questa pratica». Insomma, anche se portati a compimento, questi sono studi abbastanza traballanti. Ma, nonostante questo, in conclusione il dottor Petri tiene a ribadire come «per quello che riguarda la parte positiva, per quello che ho potuto vedere, tutti i docenti contattati avevano dei curricula impressionanti, alcuni erano addirittura primari. Il problema è che nessuno è stato pagato». E chiamalo problema.

‘Cerchiamo di controllare il più possibile’

Sembra dura a morire la moda di aprire scuole private che si definiscono universitarie ma che, per sventura di docenti e studenti iscritti, di universitario non hanno niente. A partire dal riconoscimento. «Venerdì abbiamo diffuso un comunicato nel quale sono state ribadite le cinque università riconosciute dal Canton Ticino – spiega contattata dalla ‘Regione’ Raffaella Castagnola-Rossini, direttrice della Divisione cultura – ed è stato fatto apposta per chiarire la situazione». E fare una sorta di prevenzione, che va di pari passo con il continuo controllo della situazione. «A livello federale è tutto monitorato, perché chi vuole fare il furbetto passa da un Cantone all’altro (come i responsabili dell’Ipus trasferitisi a Disentis creando un’altra struttura ex novo, la Unipolisi, ndr). Quindi la comunicazione, garantita da incontri che io e i miei omologhi degli altri Cantoni teniamo mensilmente, è fondamentale». E quando emerge qualcosa? «A volte riusciamo, tramite qualche segnalazione, a scoprire che alcuni istituti possono avere ragioni sociali simili a quelle delle scuole protagoniste dei casi recentemente emersi – spiega Castagnola-Rossini – e noi in genere li convochiamo per sapere cosa intendano fare di preciso. Poi, chiaro, possiamo agire solo quando ne abbiamo legalmente gli strumenti».

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