Mendrisiotto

Felix Karoubian: 'Magari sa vedum'

Dopo decenni lascia il Mendrisiotto e concentra a Grancia. La storia di un immigrato che ha fatto breccia nei ticinesi parlando in dialetto (in Tv)

Ti-Press
6 febbraio 2018
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‘Crispas’. Proprio non se lo aspettava Felix Karoubian di dover chiudere il negozio di Morbio Inferiore e lasciare il Mendrisiotto. Qui nel distretto ci ha trascorso anni, anzi decenni: a Mendrisio, a Balerna, ma anche a Chiasso, dove per otto lustri ha esposto negli spazi di un garage della cittadina. La crisi?, gli chiediamo approfittando di una pausa tra un cliente e l’altro. «Cosa ne pensa? Bisogna dire le cose come sono: è un problema di mercato, di tendenze, di cambiamento dei gusti e delle abitudini, di difficoltà a trovare la merce giusta. Bon, è così – riconosce nel suo italiano che tradisce un’evidente inflessione francese –: una volta si potevano avere più punti vendita, ora la gente si sposta, anche fino a Grancia». Lui, infatti, riparte da lì. Anche se gli spiace andarsene, perché qui nell’estremo Sud del Ticino si trovava bene: «Ma non molliamo». Fa parte del suo carattere? «Fino a quando si può». Di strada, del resto, Karoubian, 61 anni, ne ha fatta parecchia, sorriso aperto e una empatia naturale. Lei ha dimostrato di essere un grande comunicatore: immigrato figlio di immigrati tunisini ha saputo trovare il linguaggio giusto per fare breccia nei ticinesi. «Ma non l’ho cercato – ci dice con semplicità –. L’ho fatto». Le è venuto naturale? «Se l’avessi cercato, non sarebbe stato tanto spontaneo. La gente lo ha sentito e lo sente e questo mi fa felice. Anche stamani – il giorno dell’intervista, ndr – sono arrivati da Airolo e da S. Moritz per un tappeto Karoubian o anche solo per curiosare».

Il dialetto, per comunicare nel lessico nostrano

Qual è il segreto? «Io sono come il dialetto ticinese: diretto». A proposito del dialetto, forse è proprio questa la chiave di volta. «Di sicuro nel nostro piccolo siamo stati tra i primi in Ticino a portare una pubblicità particolare, in dialetto appunto. Che hanno copiato. E questo è appagante». Perché ha scelto di comunicare nel lessico nostrano: lo ha imparato facilmente, o lo ha interiorizzato? «Io lo capisco ma non lo parlo – confessa –. Ho familiarizzato con alcune espressioni, che ormai fanno parte di me. Ho iniziato facendo il porta a porta, il lavapiatti e ho incontrato i ticinesi che mi parlavano in dialetto. Mi è sempre piaciuto: è così bello e sincero, senza mezzi termini. Purché si bandisca la volgarità». È stato un modo per integrarsi? «Non ci ho mai pensato – ci dice –. Non ho mai fatto le cose pensando a questo aspetto. Io mi sono integrato: dove poso i miei piedi, quella è la mia terra. Sono qui da 40 anni – in Ticino è arrivato che ne aveva 20, ndr –: adesso le mie radici sono qui. Comunque quando sono arrivato a fare il lavapiatti mi trovavo già bene. D’altro canto, io mi trovo bene dappertutto. Ciò che conta è il rispetto reciproco, e l’educazione: sono la cosa principale. Il resto va». Vita avventurosa, la sua. «Direi ‘kamikaze’. Da giovane, d’altra parte, tutto va in fretta; si fanno le cose senza pensarci troppo. Con passione, entusiasmo». In 40 anni in Ticino cosa è cambiato, anche nei confronti degli stranieri? «Mi dica lei cosa non è cambiato a questo mondo – ci fa notare –. Tutto è cambiato. Però il dialetto no. Anzi, ha ripreso vita. Indirettamente anch’io avendolo usato in pubblicità, ho contribuito: 30 anni fa non lo si parlava tanto, si preferiva l’italiano. Lo si è riscoperto dopo. Sta di fatto che io, grazie al dialetto, sono entrato nelle famiglie. Non per simpatia o altro, mi vedono e trasmetto gioia. Anch’io non so spiegarmi il motivo». Insomma, è riuscito a bucare lo schermo, come si dice. «È meglio dire che sono entrato nel cuore delle persone – ci corregge –. Sono le persone che fanno le cose, la vita è fatta dalle persone; il resto è contorno». Sta di fatto che il suo modo di affacciarsi al video l’ha caratterizzata. «Penso proprio di sì. Chiaro, dobbiamo vivere, guadagnare, ma ciò che è importante per finire è la relazione con gli altri». E lei ha saputo entrare in sintonia con i ticinesi. «Posso solo ringraziare questo Paese – sottolinea Karoubian –. Nei primi 18 anni ho fatto esposizioni in tutta la Svizzera: eravamo l’unica ditta ticinese che osava sfidare i grandi mercati d’Oltregottardo. Con il gusto latino, s’intende, che era tutta un’altra cosa. Diciamo che ci siamo aiutati a vicenda». Che è l’importante. «Lo si dimentica, ma quando vieni accolto in un Paese nuovo devi solo dare, dare e rispettare: punto e basta. Il resto poi arriva da solo».

Dal telaio al banco, un mondo fatto di tappeti

Nomen omen. E si può proprio dire che Felix Karoubian il suo destino ce l’ha nel nome. La gioia e l’entusiasmo non lo abbandonano mai. Anche quando la crisi morde, e fa male. Il suo mondo ruota (e continuerà a ruotare) attorno ai tappeti. Gli si può parlare di tutto, ma alla fine il discorso finisce sempre lì. «Il tappeto stesso porta gioia – si giustifica –: fa migliaia di chilometri e chissà perché arriva nel mondo di casa tua e ti riempie di allegria. Sa cosa dice l’artigiano: “Io faccio il tappeto, Dio il cliente, e il tappeto sceglie il posto”. Non ci sono regole». Certo, ammette, «non posso pagare l’affitto o le imposte con un tappeto». E allora avanti con gli spot. «A qualcuno la mia strategia comunicativa sembra aggressiva – ci dice –. Ma devo pur stimolare i clienti: e per raggiungerli bisogna far leva sui media, giornali, televisione e radio. È una scelta commerciale. Ma grazie a Dio non posso lamentarmi: poteva andare molto peggio». È il suo spirito orientale che viene a galla? «Anche i non orientali hanno questo approccio. La gente, però, è soffocata dalle problematiche. Anche se è grazie a chi compra tappeti in Occidente che chi lavora al telaio vive – annota Karoubian –. Insomma, in Afghanistan non c’è nessuno che compra tappeti. L’Iran è il solo Paese dove mercato interno ed esterno si equilibrano, perché c’è il petrolio e fa parte delle usanze. È come l’orologio per gli svizzeri: non se ne fa a meno, ricco o povero non fa differenza. Da un po’ di anni, però, vado laggiù e vedo persone che non ce la fanno e si comprano un tappeto fatto a macchina in Iran. Una volta era impensabile. Ma il costo della vita aumenta ovunque. Tra un po’ saranno in pochi a potersi permettere un prodotto di qualità. Il che mi fa essere orgoglioso di essere riuscito a far comprare un tappeto anche a chi non ha molti mezzi, senza rovinarsi». C’è da credere che continuerà a provarci. Insomma, la rivedremo ancora su questi schermi? «Non so come sarà, ma ho ancora da combattere per qualche anno. Magari ‘sa vedum’, una volta verrà a trovarmi». Il vero commerciante non perde mai occasione...

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