Luganese

'L'Africa mi ha fatto ritrovare la passione per il bisturi'

L’ex primario di chirurgia al Civico, il prof. Rosso, racconta la sua esperienza all’ospedale da campo Agok di ‘Medecins sans frontières’ nel Sud Sudan

Il dottor Raffaele Rosso, ex primario di chirurgia all’ospedale Civico, in Sud Sudan per ‘Medecin sans frontières’. Nella foto con l’anestesista
12 ottobre 2018
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Laggiù dove la terra volge al rosso e il termometro sale a 40 gradi, nemmeno le violente piogge torrenziali riescono a lavare via tutta la sofferenza che si incontra ogni giorno. «Non ho mai visto tanta miseria. Curavo pazienti feriti, malati o ustionati che avevano camminato per ore o giorni, sopportando dolori inimmaginabili, per arrivare al nostro ospedale. Alcuni non erano nemmeno vestiti, erano infilati in un sacco di juta. Malgrado ciò non si lamentavano, vivevano i loro drammi con dignità, in un contesto dove la morte è un evento giornaliero», ci racconta il dottor Raffaele Rosso.

Dal Civico a un ospedale da campo

Dal reparto di chirurgia dell’Ospedale Civico di Lugano – dove è stato primario fino all’anno scorso – all’ospedale da campo di ‘Médecins sans frontières’ ad Agok nel Sud Sudan. Un misto di tende e prefabbricati in costruzione in una zona travagliata oggi da conflitti interni: 200 letti in tutto per maternità, pediatria, medicina interna e chirurgia, una sala operatoria, un anestesista, un laboratorio e poco più, niente radiografie, niente Tac. Dal 20 giugno, per 6 settimane, il prof. Rosso per diverso tempo è stato l’unico chirurgo. «Se a Lugano facevo 500-600 interventi l’anno, in Africa ne ho fatti circa 300 in 5 settimane. Arti fratturati da raddrizzare manualmente e ingessare, ernie strozzate, peritoniti, amputazioni, ustioni di bambini che si scottano con il fornellino di casa, ferite da arma da fuoco, cesarei e isterectomie ecc. Abbiamo dovuto rinunciare a curare un giovane paziente con un trauma cranico, a Lugano sarebbe stato salvato, in Africa non vi erano i mezzi. È dura da accettare, ma devi limitarti a ciò che puoi fare ed è già molto», spiega.   
Un’esperienza dura, che richiede nervi saldi e una buona dose di adattabilità, perché fra tanta sofferenza ci si può perdere. «I primi giorni sono stati difficili, poi ti adatti. Tutto è molto spartano, dal ‘tucul’, abitazione africana, poco più di una cella monacale, alle latrine e docce in comune. Grazie al wi-fi comunicavo tutti i giorni con casa. Gli  affetti sono il tuo mondo e fanno da argine a tanta povertà, ti ricordano chi sei. Aiuta anche la vita comunitaria con gli altri operatori stranieri, ogni venerdì si cucinava insieme la pizza e ho fatto spesso la pasta per tutti. Mi ha aiutato a integrarmi», dice. Ma l’Africa ha dato molto di più al medico luganese. «Ho ritrovato le radici profonde che mi avevano portato a fare il chirurgo, ho ritrovato la passione che avevo da studente. Lì sai perché fai il tuo mestiere. L’Africa ti stravolge con la sua capacità di sorridere nella miseria più nera, ho sicuramente ricevuto dai pazienti molto di più di quello che ho potuto dare». 

Una buona esperienza per giovani medici 

E c’è stato anche spazio per qualche sorpresa, come quel giorno in cui è arrivata una ventenne, che aveva partorito a casa 3 gemelli.
Dopo 10 giorni, la madre se li è caricati in spalla e li ha portati all’ospedale. «Erano denutriti, il più fragile pesava un chilo, ma sono tutti sopravvissuti. Un vero miracolo!». 
L’Africa potrebbe essere una buona e necessaria esperienza per tanti giovani. «Il problema è che nei Paesi occidentali i giovani chirurghi si specializzano sempre più presto, in Africa occorre essere polivalenti e sapere fare di tutto, come i medici di valle di un tempo», precisa. Per chi vuole partire occorrerà studiare moduli di formazione che permettano loro di rispondere al meglio ai bisogni dei Paesi in via di sviluppo.   
‘Médecins sans frontières’ (Msf) fa lunghe selezioni prima di scegliere un medico. «Mi hanno rigirato come un calzino per diversi mesi e ho dovuto superare diversi test psico-fisici prima di venire selezionato», aggiunge. Poi ci sono i corsi prima di partire nei quali vengono passati in rassegna i problemi che si possono incontrare in Africa e, in particolare, al rientro. Il medico ora si prepara per la prossima missione: destinazione Camerun, a febbraio 2019. 
Non è stata casuale la scelta di ‘Médecins sans frontières’, un’organizzazione non governativa con 45mila impiegati, 462 progetti in 73 Paesi, dove sono in corso guerre o conflitti armati  interni. «Durante la mia carriera sono stato abituato a lavorare in un contesto dove c’era tutto e dunque ho privilegiato un’organizzazione con una logistica molto efficiente che mette a disposizione una sala operatoria attrezzata, un anestesista, personale ben formato e un mandato definito e chiaro su ciò che puoi e devi fare. Msf è in grado di costruire un ospedale gonfiabile in 24 ore e di far arrivare farmaci e kit chirurgici in tempi molto brevi». 
Nata 50 anni fa dopo il dramma del Biafra e fondata da medici e giornalisti, Msf ha un duplice scopo: curare e testimoniare. «Possono farlo perché indipendenti, al 96% sono finanziati da privati», conclude. 

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