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Un salto nel vuoto. Vecchi e nuovi riti

Cosa hanno in comune il rituale melanesiano del salto nel vuoto, il bungee jumping, e il tuffo in piscina? (Prima parte)

Il salto nel vuoto praticato dai giovani dell’arcipelago melanesiano di Vanuatu, in Nuova Zelanda: un rito di passaggio presente anche in Occidente (foto di Christopher Hogue Thompson)

Cosa hanno in comune il rituale melanesiano del salto nel vuoto, il bungee jumping, e il tuffo in piscina? (Prima parte)

28 agosto 2021
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Nella vita può capitare che saltare nel vuoto con delle liane alle caviglie, appesi a un elastico, oppure fare un tuffo da una certa altezza rappresentino un’esperienza formativa e trasformativa. D’altronde, sfidare il vuoto è sempre stata una delle più diffuse prove di coraggio; non ci stupiamo affatto, quindi, se presso alcune culture per diventare adulti gli adolescenti si lancino con delle liane alle caviglie, mettendo a repentaglio la propria sicurezza. In confronto, il bungee jumping è incredibilmente più sicuro. Analogamente, un tuffo in piscina è generalmente meno complicato di un tuffo da uno scoglio, da una roccia, da un ponte. Purtuttavia, anche nella sicurezza di una piscina pubblica, il tuffo mantiene una parentela piuttosto stretta con il temibile salto nel vuoto praticato dai giovani dell’arcipelago melanesiano di Vanuatu, in Nuova Zelanda.

Certo, nel caso melanesiano parliamo di una temibile prova che ha tutto del rituale celebrativo: si svolge in un momento preciso dell’anno (l’inizio della primavera), coincide con la raccolta dell’igname (alimento centrale nella dieta dei popoli autoctoni), e coinvolge interi villaggi in un’atmosfera di festa. Da noi, invece, chi si lancia nel vuoto lo fa soprattutto per il lusso di una scarica adrenalinica, per celebrare un evento o una ricorrenza individuale, o per vincere una paura personale. Il bungee jumping, il tuffo dalla scogliera, nel lago, o in piscina, non hanno, in apparenza, nulla di fastoso, e tantomeno coinvolgono interi villaggi marcandone i ritmi stagionali. Ma al di là di queste differenze culturali, in tutte queste esperienze l’individuo mette in gioco il proprio coraggio, entra in contatto con la forza della natura, e sperimenta i propri limiti. E ogni esperienza dei limiti è già, in nuce, luogo di una possibile ridefinizione identitaria. Ecco perché, dietro la diversità di queste pratiche, emerge il fascino per forme rituali che, anche da noi, mantengono qualcosa delle loro potere formativo e trasformativo.

Il rituale dei tuffi

Dall’arcipelago melanesiano ci spostiamo sul lungomare di Marsiglia, scenario suggestivo dove la scrittrice Maylis de Kerangal ambienta il romanzo ‘Corniche Kennedy’ nel quale narra le vicende di un gruppo di ragazzi per i quali i tuffi dalla scogliera cristallizzano il senso più profondo di un’adolescenza vissuta con intensità e pienezza. Come informa la trama del romanzo, sono ragazzi che “si lanciano dalla scogliera sfidandosi tra loro, sfidano le autorità e sfidano soprattutto se stessi, alla ricerca di quell’ebbrezza che li porta a spingere sempre più in là i loro limiti”. Come ha mostrato molto bene l’antropologo David Le Breton, l’esperienza del rischio e la ricerca dei limiti caratterizzano, tanto nelle vecchie quanto nelle nuove generazioni, i riti di appartenenza e di passaggio che conducono all’età adulta. Molti dei nostri rituali salti nel vuoto, fra cui quelli dei ragazzi descritti da Maylis de Kerangal, si svolgono all’aperto e coincidono con l’estate. Il forte legame con il ritmo delle stagioni, come nel caso melanesiano, è dunque mantenuto. In età adolescenziale, complice la tregua dagli obblighi scolastici, l’estate è un periodo di transizione e di scoperte, di cambiamenti e di avventure. A ridosso della primavera, di cui porta a maturazione i processi di rigenerazione di mente e corpo, l’estate è la stagione che più di tutte incoraggia la comunione sensuale con la natura.

Se il romanzo di Maylis de Kerangal suggerisce come l’estate renda possibile quei salti nel vuoto che si trasformano in riti di passaggio verso l’età adulta, anche un excursus più prosaico sui bordi delle nostre piscine pubbliche si rivela molto istruttivo. Nei caldi pomeriggi estivi, quando il bagnino autorizza l’accesso ai trampolini da 7 e 10 metri, a bordo vasca cominciano a sostare gruppetti di curiosi. Per chi, quel giorno, ha scelto di misurarsi per la prima volta con quelle altezze vertiginose, i minuti di quella mezz’ora sembrano interminabili. Anche se forse i giovani novizi non lo avvertono chiaramente, la loro prova di coraggio ha proprio il sapore del rituale di passaggio. Si tratta infatti di un evento programmato nel tempo, che ha una durata precisa, ed è regolato dalla figura del bagnino, che decreta l’inizio e la fine della parentesi rituale. Durante l’evento, poi, il bagnino si assicurerà che lo specchio d’acqua della vasca rimanga libero per il tuffatore che, nel momento del salto, avrà l’attenzione su di sé. Di fatto, ormai i curiosi a bordo vasca costituiscono il pubblico di una vera e propria performance.

A volte invece assistiamo a dei veri e propri riti mancati che, proprio in virtù del loro insuccesso, ci riportano alla solennità della cornice rituale. In un breve scritto intitolato "Il tuffatore" incluso nella raccolta ‘La terra e il suo satellite’, Matteo Terzaghi racconta la sistemazione di un trampolino improvvisato, “fatto con i pezzi di una gru, alto circa dieci metri”, sulle rive di un lago. Siamo, immancabilmente, nel pieno dell’estate e, nonostante il carattere improvvisato di quello scenario, ritroviamo anche qui la presenza vigile del bagnino “con la sdraio e l’ombrellone”. Nel frattempo, sotto gli occhi attenti dei passanti, sul trampolino si mettono in bella mostra tre ragazzini: “era incredibile quanta gente si fermasse sul lungolago a guardare questi tre piccoli esibizionisti! Si eccitavano e saltavano sul bordo della piattaforma, si incitavano a vicenda e poi si tiravano indietro. E più continuavano a non tuffarsi, più lo spettacolo si faceva avvincente – o forse, meglio, ipnotico”. Succede che poi, nel climax di quel “tergiversare” tanto efficace da ridurre i passanti in uno stato di trance collettiva, i ragazzini non sfoderano il necessario coraggio per affrontare, e superare, la prova. Non si rivelano, letteralmente, all’altezza. Tanto che, in un finale decisamente comico, nello stupore generale si fa vivo “un omone sulla cinquantina” che, portando a termine l’opera lasciata a metà, ruba la scena ai tre ragazzini, a cui ormai non rimane che rimuginare sul rituale mancato.

Riti di passaggio e sogni d’infanzia

La prima comunione, il diploma scolastico, l’addio al celibato o il matrimonio, sono dei riti di passaggio perché decretano un cambiamento identitario. Scandiscono e strutturano il tempo, delimitano un prima e un dopo, mettono in ordine una narrazione personale che altrimenti perderebbe in spinta dinamica, e a volte delimitano le stagioni della vita. Attraverso l’esplorazione dei propri limiti, i giovani tuffatori conquistano la propria fisicità, scoprono la sensualità della vita, rendendosi così artefici della loro crescita personale. Nelle esperienze rituali, la componente individuale e collettiva, e quella personale e sociale, sono complementari. È rituale ciò che è soggettivo, personale e, al tempo stesso, è iscritto nella materialità dello spazio. Un altro aspetto importante dei rituali è la presenza di emozioni, anche molto intense, che si propagano in maniera mimetica e fluidificano l’esperienza del gruppo. Per i nostri giovani tuffatori, molti dei quali sono preadolescenti, i primi tuffi da quelle altezze proibite si configurano come delle piccole trasgressioni che hanno un effetto tanto inebriante quanto irripetibile. Come tutte le prove di coraggio che ci portano a superare i nostri limiti, marcano una vittoria sul destino che, oltre a rendere uniche quelle giornate estive, quasi certamente verrà ricordata per sempre.

Cosa abbiano esattamente in comune il rituale melanesiano del salto nel vuoto, il bungee jumping, il tuffo selvaggio dalla scogliera, nel lago, o quello più addomesticato nella piscina cittadina, è difficile da dire con precisione: di sicuro hanno in comune l’incontestabile fascino che il vuoto esercita su di noi. Di certo, tutte le culture rimandano non solo al coraggio, alla sfrontatezza, al fascino e all’ebrezza, ma anche alla vertigine, al rispetto, al rischio e alla paura che il vuoto alimenta. Per questo gli antropologi considerano il vuoto un’esperienza liminale, che conduce a soglie, a passaggi e a trasformazioni identitarie. Così come ogni stagione dell’anno porta il suo carico di esperienze e emozioni, le stagioni della vita arricchiscono e trasformano la persona.

Oltre che al passaggio fra l’adolescenza e l’adultità, il vuoto può far pensare alla morte; ma non solo, ci riporta anche alla fervida stagione dell’infanzia. Chi non ha mai sognato, bambino, di padroneggiare il vuoto, di volare? Forse i nostri giovani e coraggiosi tuffatori concretizzano, in quegli attimi sospesi fra cielo e terra, quel sogno. Con la sfrontatezza tipica dell’età adolescenziale, con un unico gesto scongiurano la morte e si riconciliano con la stagione dell’infanzia. Tornando a quel mondo onirico lo superano, e si superano, preparando la loro entrata nel mondo adulto. Che sia questo il senso più profondo di quella scommessa con la gravità, di quel gesto sempre un po’ spericolato anche quando è addomesticato, di quel salto nell’ignoto? In quel sogno infantile che si realizza in un battito di ciglia, forse si cristallizza il senso di una vita nel pieno del suo sviluppo adolescenziale. E nell’intensità di quell’ebbrezza, si insinua l’antica certezza, tipica dei riti di passaggio, che nulla sarà più come prima.