laR+
logoBol

Noi macchinisti e quel senso di impotenza sui binari

Storie di chi ha subito gravi incidenti sulle rotaie. L'appello di chi sta sulla locomotiva: "Ci sono ragazzini che mimano il gesto di gettarsi sotto il treno'

Storie di chi ha subito gravi incidenti sulle rotaie. L'appello di chi sta sulla locomotiva: "Ci sono ragazzini che mimano il gesto di gettarsi sotto il treno'

26 giugno 2020
|

A inizio giugno una bimba di 22 mesi è stata investita da un treno alla stazione di Würenlos, in Argovia: è morta in ospedale. Lo stesso giorno un operaio è stato investito nel canton Vaud da una locomotiva ed è deceduto sui binari. Vite spezzate per un errore; per la troppa disattenzione nelle stazioni, dove basta una piccola distrazione per venire risucchiati da un treno; per scelta (in media 115 suicidi l'anno in Svizzera sulle rotaie). A volte non si pensa che dietro ogni tragedia c’è un macchinista, che si trova suo malgrado coinvolto con un senso di impotenza che resta incollato addosso: c’è chi a fatica volta pagina e va avanti e chi non torna più in cabina di comando e deve cambiare lavoro. Quando dalla locomotiva si vede un pericolo sui binari è troppo tardi per frenare come ci raccontano tre macchinisti, una donna e due colleghi, che hanno dovuto digerire la morte sui binari  

“I macchinisti sanno che può succedere. Chi è più fragile vivrà l’incidente come una frattura che può modificare il suo approccio alla vita. Si inizia a dormire poco e male, lo stato d’ansia aumenta. In questi casi prima si chiede aiuto e più chance si hanno di uscirne. Per altri invece l’incidente diventa un evento della vita, superato lo stress iniziale ci si adatta, si assorbe evento traumatico e si va avanti”, spiega lo psichiatra Michele Mattia presidente dell’Associazione della Svizzera italiana per i disturbi d’ansia, depressivi e ossessivo-compulsivi (Asi).  

Lo sa Emanuele Besomi, dirigente del personale alle FFS Cargo SBB e macchinista da 20 anni, che ha sostenuto diversi colleghi coinvolti in incidenti. “Sul momento tutti reagiscono poi può arrivare il crollo. Si accompagna in polizia il collega, che per tre giorni non lavora, la maggioranza torna sulla locomotiva. Il primo giorno il macchinista non è solo, viene accompagnato, si rifà la tratta dell’incidente per valutare, se ci sono problemi. C’è anche il ‘care team’ per un debriefing o aiuti più specialistici”, spiega. 

Oggi alle Ffs c’è più formazione. “Se ne parla, sapere che può succederti è una sorta di protezione per il cervello. Sai che cosa fare, ma come lo vivrai, lo saprai solo in quel momento. Si può reagire in modi diversi, molto dipende come si sta e dalla dinamica dell’incidente”, precisa Besomi. A fare la differenza per lo psichiatra Mattia è lo sguardo. “Se c’è un contatto visivo tra macchinista e vittima, quest’ultima diventa una persona, non è più solo un corpo travolto dal treno. Lo sguardo è potentissimo, ti fa entrare in relazione diretta con l’altro e vieni coinvolto emotivamente”. Infatti molti macchinisti all’ultimo chiudono gli occhi e si tappano le orecchie. 

 Quello che tutti i macchinisti sottolineano è la troppa distrazione nelle stazioni. “Dalla locomotiva abbiamo una visibilità di 300 metri, bisogna rispettare la linea bianca, perché i merci passano anche a 100 chilometri l’ora in stazione creando grossi spostamenti d’aria. È sufficiente che un ombrello sfiora un vagone per essere risucchiati e catapultati. Vedo troppe persone sul limite della linea bianca con lo zaino a filo del treno, rischiano di venire trascinati”. Besomi più volte si è messo a suonare entrando in stazione. “Spesso i giovani hanno le cuffiette e non sentono. Un merci lanciato a 100 chilometri l’ora ha bisogno di uno spazio di frenata di centinaia di metri”. Non si deve scherzare in stazione, ci vuole massima attenzione. 

Qualche volta la famiglia della vittima cerca il macchinista. “Alcuni colleghi accettano, altri non se la sentono - precisa Besomi - Ricordo la madre di un'adolescente che si era suicidata, aveva scritto una lettera al macchinista, voleva scusarsi per tutto il malessere causato”. Questo tipo di contatto è salutare, per lo psichiatra, quando c’è accoglienza, serve a lenire il dolore dell’altro, aiuta il macchinista a ridurre il senso di colpa, si condivide insieme il dolore”, conclude lo psichiatra. 

La testimonianza 1, 'L'ho vista, ho frenato sapevo che era tardi'

“Era una donna ed era sui binari, l’ho vista all’ultimo momento, ho frenato e ho sentito il colpo. Sapevo che era troppo tardi. Vicino c’era una clinica psichiatrica. Nella formazione, ci spiegavano che c’è la parte bella e quella meno bella del nostro lavoro, di cui non si parla mai, ma che coinvolge tanti macchinisti. Quel giorno l’ho vissuta in Ticino sulla mia pelle”, racconta E. C., macchinista da 32 anni. Al suo primo incidente aveva 34 anni e guidava i treni passeggeri. "C’era ancora il capo treno che mi ha aiutato a gestire la situazione. Un collega ha portato via il treno e un operaio mi ha accompagnato in polizia per il verbale. Erano altri tempi, c’era poco sostegno, oggi ci sono colleghi formati che ti assistono e se hai bisogno vai da uno specialista. Comunque dopo tre giorni di pausa sono tornato al lavoro. Mi sono detto che era meglio iniziare subito. Pensare troppo non mi avrebbe giovato. Ho voltato pagina e l’ho superata”, spiega. Dal 2004, il macchinista ticinese guida solo treni merci per la SBB Cargo international. Il secondo incidente, una decina di anni fa, è avvenuto in Italia, quando ad un passaggio a livello spunta improvvisamente sui binari un anziano. “Eravamo due macchinisti elvetici. Il treno ha scaraventato l'uomo poco distante. Era ubriaco, aveva un sacchetto di birre e vodka che sono andate in frantumi. Lui continuava a ripetere: 'Il treno non arriva mai ma oggi è arrivato'. Quell’uomo miracolosamente non si è fatto nulla", ricorda. Il macchinista è uscito indenne da queste esperienze, ma non è così per tutti. "Alcuni colleghi non l’hanno superata e hanno smesso di fare il loro lavoro". Anche per E.C. è opportuna una maggiore attenzione. "C’è più gente nelle stazioni, vedo tante persone con le cuffiette nelle orecchie o incollati al cellulare, che non sentono e non prestano attenzione al treno merci che attraversa la stazione. Ma il treno non si ferma. Basta una piccola disattenzione per finire male”, precisa. In alcune tratte, continua, come tra Giubiasco e Bellinzona, la ferrovia è più chiusa, perché ci sono pannelli fonici, ma nelle stazioni occorre davvero più prudenza.

La testimonianza 2 : 'In un attimo è cambiato tutto, la mia vita e la loro'

"L’ho visto sui binari, ho frenato ma non c’era più nulla da fare. Ti senti totalmente impotente. In un attimo è cambiata la vita per me e per la sua famiglia, che si è ritrovata senza un padre, senza un marito". Sono passati 8 anni e il ricordo dell’incidente è ancora nitido nella mente di D. S. (nome noto alla redazione). È una giovane donna, macchinista da 9 anni, mi racconta che ha guidato treni passeggeri e ora è passata ai merci, alla Sbb Cargo International. Era un giorno di lavoro come tanti altri: andava piano, appena uscita da una stazione nel canton Argovia non ha potuto schivare un operaio che era dove non doveva essere, ossia sul binario a lavorare ignaro del treno passeggeri in arrivo. "Anche frenando non ho potuto evitarlo. Con lui c’era un apprendista di 18 anni, mi spiace abbia dovuto assistere ad una tragedia simile".

Una giornata drammatica e molto lunga tra passeggeri del regionale da rassicurare, il treno da mettere in sicurezza e le domande degli agenti di polizia. Nei tre giorni successivi la macchinista non è andata al lavoro. "Faticavo a dormire, ero agitata. Mi sono fatta un film nella mia testa su quest’uomo, che non ho visto in volto. Poi ho saputo che era padre di due figli", dice con rammarico. C’è stata anche un’inchiesta giudiziaria da cui la professionista è uscita senza macchia alcuna. Tornare a guidare un treno non è stato facile. “Il mio capo di allora mi ha accompagnata per due turni, ma la sera mi coglieva l’ansia, avevo paura, una collega mi ha affiancato ancora per circa una settimana”.  Insomma c’è voluto tempo e pazienza per riguadagnare sicurezza alla guida e tornare alla normalità. "Per un anno ogni volta che vedevo un operaio vicino ai binari frenavo anche se non c’era pericolo. Ce l’ho fatta a superare tutto perché ero in un buon momento della mia vita, avevo le risorse per uscirne", aggiunge. La macchinista ticinese ha voluto raccontare la sua storia per rendere tutti attenti ai rischi in stazione. Quando circola vede comportamenti che non vorrebbe vedere: "C’è chi per gioco, con gli amici, sfida il treno, chi attraversa i binari dove non deve, genitori che non sono attenti a dove giocano i figli. Il marciapiede in stazione non è un parco giochi, ma un luogo estremamente pericoloso. Si deve stare lontani dalla riga bianca. Tanti incidenti potrebbero essere evitati con più rispetto e meno egoismo", conclude la donna.

La testimonianza 3  : 'Le vittime sono due. Uno è il macchinista' 

"Quando c’è un incidente le vittime sono sempre almeno due, chi si trova sui binari e il macchinista in cabina”, spiega Thomas Giedemann, da 27 anni macchinista, lavora sui treni merci per la Sbb Cargo International. Anche lui, presidente dei macchinisti ticinesi affiliati al Sindacato del personale dei trasporti (Sev), ha vissuto sulla sua pelle che cosa significa investire qualcuno sui binari. È mai possibile essere pronti? "No, non sei mai pronto per una situazione simile. Inoltre nel passato, non si veniva formati e accompagnati in queste situazioni, il suicidio sui binari poi era un tabù. I casi c’erano ma nessuno ne parlava. Negli ultimi anni la mentalità è cambiata, c’è più formazione. Dopo aver fischiato e azionato la frenatura rapida, ti consigliano ad esempio di chiudere gli occhi per evitare un contatto visivo con la vittima. Lo facciamo quando succede. Tra gli altri modi pe mitigare lo shock, ci tappiamo anche le orecchie", precisa.

Anche Giedemann nove anni fa ha investito un uomo che cercava la morte sui binari tra Chiasso e Milano. "Eravamo in quattro macchinisti quel giorno, mi stavano illustrando la nuova tratta. Quando abbiamo visto qualcosa sui binari sapevamo che era già troppo tardi. Il treno pesava quasi 1700 tonnellate, viaggiando a 100 chilometri orari, ci vuole almeno un chilometro per fermarsi. Nella sfortuna siamo stati fortunati, essendo in quattro ci siamo sostenuti e abbiamo fatto il 'debriefing' tra di noi", spiega.  Il macchinista è tornato a fare il suo lavoro, ma mentre ci racconta quei drammatici momenti, il suo volto tradisce emozioni probabilmente mai del tutto sopite. "Sono passati tanti anni, eppure mi emoziona ancora quella brutta storia, che mi ha tolto il sonno per vari giorni”, aggiunge. Dietro ogni dramma, è bene ricordarlo, ci sono anche loro: i macchinisti. Una grande vittoria del sindacato è stata quella di ottenere che questi incidenti, soprattutto quando un macchinista non si riprende, vengano considerati infortunio professionale e non malattia. "Accompagniamo i macchinisti che hanno subito un incidente sui binari, diamo loro supporto legale, aiutiamo chi non lo supera e deve cambiare lavoro. Grazie ad un caso ticinese finito al Tribunale delle assicurazioni, oggi questi drammi non vengono considerati malattia ma a determinate condizioni sono infortunio professionale coperto dalla Suva",  chiarisce Angelo Stroppini, segretario del Sev.  ‘Una bella conquista per noi macchinisti - aggiunge Giedemann - è vero che la reazione è molto personale, molti girano pagina e vanno avanti, ma altri colleghi non si riprendono dopo questi drammi ed è giusto che vengano aiutati a riqualificarsi".  

Anche Giedemann più volte, ha osservato dalla locomotiva atteggiamenti sconsiderati nelle stazioni. "Ci sono ragazzini che mimano il gesto di gettarsi sotto il treno. Questo comporta un grande stress per noi macchinisti. Meglio ripeterlo, un treno non si ferma in un attimo, si parla di centinaia di tonnellate in movimento e attraversiamo le stazioni anche a 100 chilometri all'ora. La stazione non è un luogo per giocare, è troppo pericoloso", conclude il macchinista.

 

Le FFS non rispondono alle domande della Regione perché... 

Abbiamo interpellato il servizio stampa delle FFS per capire come procede la formazione dei macchinisti coinvolti in queste delicate situazioni; come procede la sicurezza nelle stazioni dove purtroppo si ripetono investimenti; quale sia l'esito della campagna condotta da qualche anno: c'è stata una riduzione dei decessi sui binari? Questa la risposta dell'azienda pubblica, inviataci via email dal portavoce Jürg Grob, che non ha voluto rispondere all'intervista: "Il tema della prevenzione dei suicidi è molto importante per le FFS, che si impegnano a fondo, insieme ad altri partner. La prevenzione inizia evitando di dare risalto mediaticamente ad articoli che citano in maniera esplicita la causa di un suicidio. Nel Codice deontologico del Consiglio della stampa, la Direttiva 7.9 indica quanto segue: Per prevenire il pericolo di emulazione, il giornalista non dà indicazioni precise circa il modo con cui la persona si è tolta la vita. Se si parla di suicidi sui binari il metodo e il mezzo del suicidio viene inevitabilmente citato. Per questo motivo abbiamo consigliato a La Regione di desistere dal pubblicare un simile articolo. Non temiamo un responso mediatico negativo, ma conseguenze negative in merito ai nostri sforzi legati alla prevenzione". 

Prendiamo atto della posizione delle FFS che non condividiamo. Ribadiamo che l'approfondimento mira a dare la parola ai macchinisti, permettendo così all'opinione pubblica di capire quanto il loro lavoro possa essere difficile e quanto siano pericolosi alcuni atteggiamenti irresponsabili o di mera disattenzione da parte dei passeggeri in stazione osservati, il più delle volte in modo impotente, da chi guida la locomotiva. Speriamo pertanto di dare un contributo, con questo servizio, ad una migliore sicurezza per tutti e nell'interesse pubblico. (la Regione)