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Covid-19: contro la crisi, un reddito di base

L'idea è quella di sostenere redditi e consumi in un momento di shock del sistema economico. Intervista all'economista Sergio Rossi

Nel 2016 i cittadini svizzeri hanno bocciato l’idea di un reddito di base con il 77% di no. Ma ieri non è domani (Ti-Press)

L'idea è quella di sostenere redditi e consumi in un momento di shock del sistema economico. Intervista all'economista Sergio Rossi

15 aprile 2020
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È una crisi economica bifronte, quella che ci aspetta per colpa di questa pandemia: una botta improvvisa sul lato dell’offerta – le aziende chiuse – si tradurrà molto verosimilmente in un collasso della domanda: gente che perde il lavoro e quindi non ha più soldi per i suoi consumi. Di fronte a una situazione del genere, due armi tipiche dell’intervento pubblico appaiono spuntate: lo stimolo basato sul taglio dei tassi di interesse è improbabile, visto che già prima dello shock si aggiravano attorno allo zero percento senza effetti di rilancio. Quanto alla spesa pubblica, indirizzarla sugli investimenti – aziendali o infrastrutturali, come da ortodossia keynesiana – non risolve il problema di base: nessuno produce se sa che non ci sono acquirenti. Che fare? Lo chiediamo a Sergio Rossi, professore ordinario di macroeconomia ed economia monetaria all’Università di Friburgo.

Professor Rossi, come si può intervenire per attutire l’impatto della recessione imminente?

Agire sugli investimenti aziendali, come si sta cercando di fare attraverso fideiussioni e tassi di interesse nulli o negativi, sarà inefficace: questo stimolo non funziona se le imprese non hanno prospettive di vendita. La spesa pubblica deve stimolare direttamente i consumi.

Con l’‘helicopter money’, l’idea di stampare denaro e ‘paracadutarlo’ nelle tasche dei cittadini?

No. L’elicottero monetario – dare ‘gettoni’ che la popolazione possa spendere nei negozi – non fa che diluire il potere d’acquisto preesistente: per una data produzione, l’aumento della domanda generato da questa misura farebbe aumentare i prezzi, almeno in una fase iniziale. Quindi l’effetto sul tenore di vita sarebbe nullo o quasi. Meglio, dunque, distribuire un reddito universale di base.

Il reddito universale di base, da non confondere con l’indennità di disoccupazione, consiste in un pagamento forfettario mensile che lo Stato versa ai suoi cittadini, a prescindere dal fatto che lavorino o no. Qual è la differenza rispetto alla moneta-elicottero?

In questo caso non è denaro stampato ad hoc, ma reddito effettivamente prodotto dalla nazione – un potere di acquisto, appunto – che viene raccolto con le imposte e redistribuito a tutti i cittadini. Il finanziamento dei loro consumi, e quindi in ultima istanza anche il sostegno che ne deriva per le imprese attraverso la maggiore domanda di beni e servizi, è perciò radicato nel sistema produttivo e fiscale del Paese. Si distribuisce reddito, non moneta, e così si evitano pressioni inflazionistiche.

Ma dare a tutti ‘quanto basta’ per vivere dignitosamente non rischia di costarci un occhio della testa? Il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, ad esempio, ritiene che una misura del genere sarebbe “o gravemente inadeguata, oppure incredibilmente dispendiosa”. Suggerisce dunque di concentrarsi solo sui disoccupati, aumentandone le indennità.

Il peso sulle casse pubbliche di un reddito universale dipende da come lo si finanzia. Ho proposto recentemente di far capo a una parte degli utili netti della Banca nazionale svizzera (Bns). A titolo eccezionale, gli utili che la Bns ha conseguito negli ultimi 5 anni incassando dividendi e interessi sui titoli che possiede andrebbero redistribuiti interamente, non alla Confederazione o ai cantoni, ma direttamente ai cittadini. Ad esempio tramite carte prepagate, che si potrebbero anche orientare a un tipo di commerci ben preciso: cibo invece di gioielli, per capirci. Un'altra possibilità di lungo termine è finanziare il reddito di base con la microimposta sui pagamenti elettronici per la cui iniziativa è stata appena avviata la raccolta di firme (vedi laRegione del 16 novembre 2019 e del 10 marzo 2020, ndr). Oppure si può prelevare un’imposta sui grandi patrimoni che girano in modo autoreferenziale nei mercati finanziari. Ho proposto un prelievo fiscale straordinario su tali patrimoni proprio per fronteggiare l’emergenza Covid-19.

Ma così i patrimoni non scapperebbero?

E dove? La forza del franco e la certezza del diritto svizzero sono vantaggi strategici per chi detiene grandi patrimoni. Non credo si voglia trasferire all’estero questa ricchezza per evitare di pagare un’aliquota una tantum del 5 per mille sui patrimoni che superano, supponiamo, i 10 milioni di franchi.

Che cosa possono fare le banche?

Anche le banche, che ora beneficiano di garanzie pubbliche per i prestiti alle imprese, dovrebbero evitare di versare i dividendi ai loro azionisti, come è stato chiesto vicino a noi dalla Banca centrale europea. In questo caso, potrebbero inoltre essere chiamate a pagare un’imposta sul volume delle loro transazioni finanziarie che non generano indotto in Svizzera, e anzi rischiano di fragilizzarne il tessuto economico. Questo aiuterebbe ad alleviare il debito pubblico, che peraltro di per sé non è sempre negativo: dipende da come lo Stato spende i soldi. 

Un argomento molto diffuso contro il reddito di base è che così si incentiva la gente a non lavorare.

Falso. Un sondaggio effettuato prima del voto popolare che ha bocciato il reddito di base, nel 2016, lo spiega bene: alla domanda “cosa farebbe se ricevesse questo reddito?”, la stragrande maggioranza degli intervistati affermava che avrebbe continuato a lavorare. Il lavoro gioca un ruolo fondamentale per l’integrazione sociale dell’essere umano. Quando però si chiedeva “che cosa farebbero gli altri?”, paradossalmente la risposta preponderante era che sarebbero rimasti a casa, sul divano, a guardare la tivù.

Un classico: i cialtroni son sempre gli altri. Ma che effetto avrebbe il reddito di base, oltre che sui consumi, sul lavoro?

Rappresentando un materasso sul quale ‘rimbalzare’ in caso di problemi finanziari, incoraggerebbe la realizzazione di sé e lo spirito d’iniziativa. I giovani ad esempio potrebbero lanciarsi in attività economiche per le quali le banche non danno prestiti in assenza di garanzie e profitti già consolidati. Quelli che ora devono lavorare per finanziare gli studi potrebbero finirli prima e con migliori risultati. 

Perché, però, dare questi soldi tanto al miliardario quanto al lavavetri?

Perché entrambi contribuiscono a fare in modo che l’economia e la società funzionino, e hanno diritto allo stesso ‘dividendo universale’. Naturalmente chi è più bisognoso ne beneficerà in modo più immediato e decisivo, mentre chi ha attività con elevati guadagni compenserà abbondantemente quanto riceve col pagamento delle imposte. Inoltre, un contributo trasversale permetterebbe di tutelare anche le forme di lavoro anomale, oggi meno protette dalla perdita di reddito, e semplificherebbe molto l’apparato burocratico del sostegno sociale. L’aiuto sociale, per chi ne necessitasse ancora, potrebbe essere così maggiormente orientato all’ascolto e al sostegno individuale, dunque più mirato ed efficace.

Un po' di storia

Un'idea trasversale 

I momenti di grave crisi economica tendono a trasformare profondamente il pensiero economico. D’accordo, nel 2008 non è avvenuto; ma nel 1929 è successo eccome, tanto che quasi tutto il Novecento dell’economia politica – gli interventi keynesiani di spesa pubblica, l’introduzione di ampi programmi di assistenza  – è figlio di quella crisi. Cose che ora ci paiono scontate, come le pensioni per anziani e invalidi, suonavano assurde prima degli shock che hanno sballottato la prima parte del secolo breve, tra crack e guerre. Qualcuno si aspetta già che la crisi economica dovuta al coronavirus produrrà qualcosa di simile, e una delle ‘pazze idee’ sulle quali si sta scommettendo è proprio quella del reddito universale di base, una somma mensile pagata a tutti i residenti di una nazione a prescindere dal loro impiego e reddito.

In realtà si tratta di un’idea con una lunga storia. Già Thomas Paine – uno dei padri della Rivoluzione americana – aveva in mente qualcosa del genere, e l’idea aveva incuriosito Napoleone. A giocherellare con quest’idea nel tempo si sono visti i personaggi più disparati, non solo di sinistra: un populista come il governatore della Louisiana Huey Long e il reverendo Martin Luther King, il presidente Usa Richard Nixon e il suo sfidante George McGovern, alcuni economisti iperliberisti come Friedrich von Hayek e Milton Friedman (quest’ultimo spingeva per una ‘tassazione negativa’ come alternativa ai tradizionali sistemi di welfare).

Alla destra liberista l’idea piace perché promette di rimpiazzare un sistema pesante e burocratizzato di aiuto sociale, semplificando il sistema di incentivi ed eliminandone le distorsioni. Alla sinistra, il progetto interessa perché promette di limitare le disuguaglianze e riconoscere il lavoro ‘nascosto’, soprattutto quello delle donne. Entrambe, per motivi diversi, si oppongono a uno Stato ficcanaso al quale si devono costantemente dimostrare i propri bisogni. Aggiungete la trasformazione tecnologica che promette di rimpiazzare milioni di lavori con robot e intelligenze artificiali, e vedrete perfino la Silicon Valley sbracciarsi per il reddito di base: tanto Elon Musk (Tesla) quanto Mark Zuckerberg (Facebook) si dicono interessati a un sistema che promette di liberare l’energia creativa di persone altrimenti inaridite dai loro ‘bullshit jobs’.

Finora, gli esperimenti sono stati pochi e controversi. Un progetto pilota nella città canadese di Manitoba, realizzato tra il 1975 e il 1979, ha mostrato che il reddito universale non riduce la partecipazione alla forza lavoro, se non quella delle giovani madri – che di fatto colgono l’occasione per prolungare il congedo maternità – e i ragazzi che tendono a stare più tempo sui banchi prima di andare a lavorare. Ne guadagnerebbe perfino la salute. Altri tentativi non sono in realtà paragonabili a un vero reddito universale di base: quello finlandese del 2016 era rivolto solo ai disoccupati, non ha ridotto la mancanza d’impiego del gruppo campione ed è stato molto criticato per l’architettura dello studio e degli incentivi; il ‘reddito di cittadinanza’ italiano è di fatto un sussidio di disoccupazione. Nel 2016 i cittadini svizzeri hanno bocciato l’idea di un reddito di base – l’iniziativa non ne specificava l’ammontare, ma si era parlato di tremila franchi mensili – col 77% di no. Ma ieri non è domani.