Inchieste

Voci dal purgatorio

(Gabriele Putzu)
12 maggio 2015
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La speranza di Carlo, 25 anni, è un matrimonio con figli e un po’ di salute per mamma, già anziana. Il sogno di Andrea, 22 anni, diventare deejay professionista «o trovare un posto normale, magari all’estero». L’urgenza di Franco, 50 anni, in libertà già da molti mesi, è lavorare subito per uscire dall’Assistenza, il pozzo in cui è precipitato dopo aver perso tutto: lavoro, famiglia, soldi e dignità.

Tre storie per raccontare il carcere, per parlare di buona e cattiva condotta, di sbagli, arresti e processi, di paura di un presente arrivato come una tagliola e di un futuro indefinito, congelato, irraggiungibile. Dentro una cella di 12 metri quadrati ritrovi te stesso, quello che hai fatto, chi sei. Pensi. “laRegione” ha raccolto quei pensieri.

Carlo (tutti i nomi sono di fantasia) viene arrestato alle 5.30 di un mattino di fine ottobre all’esterno di un locale notturno. Con un coltellino svizzero ha ferito al torace un ragazzo rischiando di ucciderlo. Lo hanno bloccato prima che peggiorasse la sua situazione, poi portato in centrale e interrogato.

È finito nel carcere giudiziario della Farera in attesa di processo. Flavia Marone, il suo difensore, lo ha preparato anche a una condanna per tentato omicidio, che è poi arrivata puntuale, inesorabile: oltre 4 anni da scontare. Questo, dopo. Prima, il “regime duro”: «Una cosa inspiegabile – balbetta Carlo –. Ansia, sofferenza, tutti quegli ansiolitici. Telefonavo continuamente all’avvocato, avevo bisogno di un contatto. Ero in astinenza da canna, da fumo. Prendevo Temesta ogni 6-8 ore per regolare il ciclo del sonno. I pasti un disastro: mi saziavo con i biscotti e passavo ore e ore a guardare la strada, seguendo i movimenti degli operai che lavoravano là sotto, oltre il parcheggio. Liberi».

Sei mesi e mezzo di Farera (in 4 singoli periodi) e tre soggiorni nel carcere penale sono come stampati sulla pelle di Andrea che, una vera libertà, nella sua vita, non l’ha mai avuta. Adesso, in attesa di un secondo processo per rapina, ascolta l’avvocato Carlo Borradori che, come farebbe un padre, cala con forza una manata sull’atto d’accusa: «Queste cose peseranno tutte sul tuo futuro! Capiscilo che così non puoi continuare!». Prima, da minorenne, c’erano stati il centro educativo Pramont, a Sierre, due periodi alla Clinica psichiatrica cantonale e uno in comunità, a Torino. Ancora prima, nessuna famiglia. «Scappavo da ogni posto, ero sempre senza soldi. Per vivere rubacchiavo», ricorda Andrea. Poi, da “adulto”, il salto di qualità.

Franco dormiva. Sono andati a prenderlo poco dopo l’alba, a casa: «Erano 8 uomini, con 2 cani. Cercavano armi ma non hanno trovato niente perché non ho mai avuto niente del genere, in casa mia. Non c’era nemmeno la droga. Erano mesi che non ne vendevo, ma loro non ci credevano. Così mi hanno sbattuto dentro».

Sapeva che sarebbero arrivati. «A Bacchetta-Cattori, prima che mi arrestassero, un giorno per strada l’avevo detto: avvocato, dobbiamo parlarci, ho fatto una cazzata». E con la figlia, guardandola in faccia: «Papà, forse, ha fatto una stupidata. Ma tu non ti devi preoccupare». Non poteva raccontarle dei festini a base di coca, di tutte quelle donne, della vendita delle bustine agli amici. Dei mesi di vuoto riempiti con lo sballo. Pensava solo a quasi vent’anni di attività nel turismo e a una solida posizione sociale, crollata in poco tempo.

Eppure, oggi, Franco sorride. «Tu non ci credi, ma in Farera sono stato bene: non sentendomi uno spacciatore non l’ho vissuto come carcere. Il cibo era freddo, ma ottimo, le guardie gentili. L’unica cosa...». Poi ricorda: «L’unica cosa sono quelle 23 ore chiuso là dentro, ogni giorno. Per un mese e mezzo. Non finiscono mai. Impazzisci. Per fortuna c’erano i Mondiali: ci ho scritto un libro con dentro tutti i gol, e un altro di appunti sulla mia vita, sulla mia gioventù in Calabria, su come cambiano la mia terra e la sua gente, che quando arriva in Svizzera e mette mille franchi in tasca non è più lei. Questo mi ha tenuto sveglio». E ancora, senza più sorrisi ma un’espressione arida: «Com’è dura, per uno come me, fare il passeggio con spacciatori veri, rapinatori, ladri di macchine. A 50 anni resisti, capisci, ma un ventenne cosa fa? Può sballare. Ne vedevo, al passeggio, di quelli che stavano male».

E ne ha visti anche Andrea, in Farera, di «quelli che andavano fuori controllo». Non solo al passeggio, anche in cella: «Pianti, urla, a volte per notti intere. Si sente tutto, là dentro, non è facile sopportare. All’inizio ero disorientato, scombussolato. E senza accendino. L’acqua dei rubinetti è gelida, in lavanderia mi sono sparite delle cose».

Però alla Stampa, in regime ordinario, le cose cambiano. Carlo convive in sezione con 45 detenuti: argentini, venezuelani, serbi, italiani: «Gli africani sono sopra, ma a volte scendono. Impari a muoverti». E «ci sono guardie brave, che ti alleggeriscono – ammette Andrea –, come alcuni detenuti. Con altri si litiga per accedere alle cabine telefoniche. E se ti capita, come è capitato a me, di finire in camera di contenimento, dimentica la luce, fai fatica a respirare». Tutto, a 22 anni. E infine uscire, «sfasato, vuoto, senza più sapere come comportarti, e doversi ricostruire tutte le abitudini».

L’ha provato anche Franco, il vuoto del dopo: libero di ricostruirsi una vita ma incapace di farlo. «A 50 anni mi ritrovo come un imbecille, non so più cosa fare, come coordinare le cose. Ho avuto la forza di uscire da una situazione, ma davanti ho il buio e quel programma occupazionale del quale ancora mi sfugge l’utilità».

Testimonianze che il nuovo direttore delle strutture carcerarie ticinesi, Stefano Laffranchini, raccoglie e commenta. «In Farera – ammette – il regime è piuttosto duro: una sola ora d’aria e le altre 23 in cella. Ma si tratta di una soluzione obbligata in ragione delle necessità d’inchiesta. Per evitare un eccessivo isolamento cerchiamo nel limite del possibile di costituire celle doppie. Ciò non accade dove c’è il rischio di collusione o se la vicinanza di determinate etnie diverse non è “culturalmente” consigliata».

Ai detenuti è concessa in questa fase un’ora di colloqui settimanale con esterni, oltre naturalmente a quelli con inquirenti e magistrati, più gli incontri con gli assistenti sociali e quelli spirituali. All’entrata il detenuto è immediatamente visto da medico e psichiatra. «Se ci sono gli indizi di una situazione potenzialmente problematica v’è la possibilità di instaurare un regime speciale con osservazione continua e costante o tradurre in cella di contenimento (con protezioni, per evitare che il detenuto possa farsi del male)». In Farera c’è posto per 50 detenuti, ma nei momenti di picco ce ne possono stare fino a 88. Centoquaranta sono invece i detenuti durante i picchi d’occupazione del carcere penale della Stampa: una multinazionale con circa 35 provenienze diverse e una maggioranza schiacciante (in media circa l’80%) di detenuti stranieri. Per i carcerati del penale Laffranchini si ritaglia possibilmente del tempo ogni giorno: «Incontro i detenuti durante il passeggio e c’è la possibilità di parlare. Per me e per gli agenti di custodia è fondamentale considerare che abbiamo davanti delle persone, indipendentemente dalla tipologia del reato. Il rischio è fare proprio l’inverso. Il nostro compito è gestire le strutture carcerarie, non esprimere giudizi di merito o di valore sulle persone». Questo, a suffragare la valutazione di Laffranchini sull’ambivalenza del suo ruolo: «Dal profilo organizzativo la mia è una funzione di media difficoltà, mentre dal profilo relazionale è una delle attività più complesse che si possa immaginare».

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