L'analisi

Una strage per l'anno nuovo

2 gennaio 2017
|

Ancora una strage, l’inenarrabile orrore che si fa ormai routine, quasi a indicare che il 2016 non sarà un unicum, e che un altro annus horribilis ci attende. Il terrore ha fatto la sua apparizione in una discoteca di Istanbul, camuffato per non essere riconosciuto: la sventagliata di Kalashnikov, la carneficina. Un déjà vu, la firma dell’estremismo islamista, ritornato a colpire negli ultimi giorni da Berlino a Baghdad.
Come la mitologica Idra, a cui spuntavano due teste ogni qualvolta Ercole gliene mozzava una, l’Isis – in arretramento sul fronte bellico sia in Siria sia in Iraq – continua a vivere in ciò che gli riesce meglio: lo stragismo portato avanti da individui o piccoli gruppi che aderiscono, spesso in modo informale, alla galassia dell’estremismo salafita.
Della propria spietatezza, Daesh (l’acronimo arabo del sedicente Stato Islamico) va fiero, la sua logica rifugge qualsiasi accenno a considerazioni umanistiche.
In un nostro recentissimo viaggio in Iraq nella piana di Ninive, l’area di Mosul dove le forze alleate cercano di conquistare la città roccaforte dell’Isis, abbiamo sentito da testimoni diretti racconti raccapriccianti sulle pratiche di Daesh, come le esecuzioni capitali effettuate con cingolati che avanzano lentamente, dalla testa ai piedi, sui corpi dei condannati; abbiamo visto quartieri e città cristiane distrutti dalla furia fondamentalista. Questo è il progetto politico di Daesh.
Il terrorismo islamista naturalmente ci interpella in quanto individui e società. Le democrazie liberali rimangono, malgrado tutto, modelli ineguagliati di libertà, giustizia, garanzie sociali. La storia non ha sempre un orizzonte definibile – affermava il politologo americano Francis Fukuyama – ma la sua direzione è forse leggibile nel flusso migratorio. Che si dirige proprio verso le società aperte, di stampo democratico, ereditate dalle grandi rivoluzioni del XVIII e XIX secolo. L’offensiva terroristica e i flussi migratori le mettono in serio pericolo: come conciliare allora libertà e sicurezza, apertura e protezione del retaggio culturale?
Il 2017 si preannuncia come un anno cardine per il Vecchio continente: saprà (sapremo) salvaguardare la sua natura democratica; non cedere alle sirene populiste con le loro perniciose – seppur comprensibili – chiusure; mantenere quell’encomiabile resilienza che – da Parigi a Berlino – fa onore a popolazione e dirigenti?
Nei Paesi Bassi dapprima, in Francia e Germania in seguito, gli elettori saranno chiamati – con la loro risposta alle minacce globali – a definire il futuro continentale. C’è da sperare che la tanto vituperata Europa venga ricordata, al momento di inserire la scheda nelle urne, anche per la sua capacità di farci vivere da settant’anni in pace e – seppure tra non poche difficoltà – in un certo benessere e giustizia sociale. Un continente che, come scriveva il grande sociologo Zygmunt Bauman, è associato spesso a una minaccia (gli effetti nefasti della globalizzazione), mentre dovrebbe essere visto in primis come un baluardo contro le minacce: quella del terrorismo, certo, ma anche quelle rappresentate dalla nuova aggressiva Russia imperiale di Putin; dalla mondializzazione della precarietà di stampo asiatico; e da quell’America in mano a un uomo che si prefigge di rilanciare la corsa agli armamenti atomici, di azzerare gli accordi con l’Iran, di buttare benzina sul fuoco sposando in toto la causa dell’estrema destra israeliana, e di azzerare quegli accordi sul clima da cui dipende il futuro del pianeta.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔