Commento

Trump People

(Steve Helber)
19 agosto 2017
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Credeva che suo figlio stesse partecipando a un raduno di sostenitori di Donald Trump. Dunque erano due le cose che non sapeva la madre di James Alex Fields, il ventenne che ha falciato con la propria auto i manifestanti antirazzisti a Charlottesville: uno, ignorava dove si trovasse suo figlio; due, non sapeva di avere ingenuamente svelato una verità che Trump medesimo ha tentato maldestramente di camuffare. “Quelli” erano davvero gente sua, emuli e parenti stretti dei suprematisti che ha portato con sé (e che tanto hanno contribuito a portare lui) alla Casa Bianca.

A dieci mesi dalla sua elezione, le spiegazioni secondo le quali l’incetta di voti che lo hanno intronizzato originava dal profondo della crisi ed esprimeva il risentimento di intere classi impoverite, le abbiamo ormai capite, e comunque si sono rivelate inadeguate per comprendere del tutto che cosa si sia prodotto in America. Anzi, se ci si ferma ad esse si è già in ritardo, perché la storia non si arresta in attesa che la capiamo. E se non apparisse forzata l’analogia, potremmo ricordare che mentre si dissertava sulle ragioni della loro ascesa, i fascismi consolidavano il proprio potere in Europa meno di un secolo fa.

In questo senso, la gestione caotica dell’amministrazione e il bric-à-brac della comunicazione presidenziale (ultima la sequenza di reticente condanna, precisazioni, autorettifiche a proposito di Charlottesville) sono anch’essi una sola parte del problema. Perché dell’elezione di Trump – per le condizioni in cui è avvenuta e per le conseguenze che si manifestano – è soprattutto necessario non ignorare il contenuto di “rivincita dell’uomo bianco”, che la condotta del presidente e i fatti di Charlottesville (ma anche lo stillicidio di episodi analoghi, seppure meno cruenti, che li hanno preceduti) confermano in maniera tragica e grottesca, rispecchiando e inducendo condizioni, eventi il cui “segno” non si cancellerà molto a lungo.

L’estrema destra (nelle cui fila si contano anche molte “persone per bene”, secondo Trump) che si è radunata nella città della Virginia non lo ha fatto per rivendicare lavoro o equità sociale, ma per affermare un primato, quello razziale, che reputa insidiato ai discendenti dei “fondatori” da “ebrei-comunisti- negri” (si veda il documentario ‘Charlottesville: Race and Terror’, firmato da una coraggiosa giornalista di Vice News Today, per averne un esemplare resoconto).

E neppure estemporanea era l’occasione che ha radunato nazisti e suprematisti: la “difesa“ della statua del generale sudista Robert E. Lee (insieme alle centinaia d’altre nel Sud degli States), minacciata di rimozione dagli antirazzisti. Quei monumenti non sono infatti una testimonianza della guerra civile (una sorta di onore delle armi reso ai vinti, come si pretende), ma furono eretti in un’epoca ben posteriore: negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, quelli della rinascita del Ku Klux Klan, dei neri linciati e appesi agli alberi (“Strange fruits”, se qualcuno ricorda Billie Holiday). E la perfetta malafede del presidente è stata espressa da lui stesso quando ha deliberatamente confuso le date e le carte, chiedendo se dopo Lee sarebbe toccato a George Washington, giacché anche il padre della patria possedeva schiavi.

Ecco: ai leader suprematisti che davanti alle telecamere ripetevano, riferendosi a Trump, “noi l’abbiamo eletto, ora ci ascolti” (compreso il Bannon licenziato di fresco), andrebbe detto che loro dovrebbero piuttosto ascoltare il presidente. Si renderebbero conto che lui è già un po’ più avanti.

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