L'analisi

Trump dichiara guerra alla stampa

27 febbraio 2017
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La democrazia muore nell’oscurità (‘democracy dies in the darkness’) recita il nuovo esplicito motto posto sotto la testata del ‘Washington Post’. La battaglia scatenata dalla Casa Bianca contro la stampa non allineata allunga un’ombra densa d’inquietudini su uno dei pilastri dell’America e della democrazia liberale: quella libertà di stampa e di parola di antichissima data, iscritta – ancora prima che scoppiasse la Rivoluzione francese – nel ‘bill of rights’. Per il direttore di ‘The Guardian’ quanto successo venerdì scorso è un attacco senza precedenti al primo (sacrosanto per gli statunitensi) emendamento della Costituzione. Il direttore del ‘New York Times’ denuncia una chiara rappresaglia contro la stampa che riferisce fatti che non piacciono al presidente. L’esclusione, venerdì scorso, dal ‘gaggle’ – il briefing informale dell’esecutivo – di testate che non piacciono a Trump è anti-americana, afferma in un editoriale Cnn, perché il Paese ha sempre potuto, soprattutto nei momenti istituzionali più bui (a cominciare dal Watergate), fregiarsi di fronte al mondo di una libertà di stampa senza pari. Certo, anche altri presidenti non hanno amato troppo i reporter scomodi. Ed è spesso capitato che l’inquilino della Casa Bianca convocasse un pool scelto di firme giornalistiche per informazioni ‘off the records’ (da non pubblicare). Ma mai si era arrivati a una selezione preventiva di reporter in una conferenza stampa, scartando giornalisti scomodi per lasciar il posto a testate minori ma compiacenti. Il portavoce Sean Spicer, campione delle “verità alternative”, ha spiegato con toni da molti giudicati melliflui, e senza convincere nessuno, che si è trattato di normale rotazione tra reporter. Lo stesso Trump, totalmente allergico alla libertà di espressione, taccia i media di ‘nemici del popolo’ mentre Steve Bannon, ex direttore del sito di (dis)informazione Breitbart.news e sorta di Rasputin del presidente, si è lasciato sfuggire, riferito ai giornalisti, “ora devono chiudere la bocca”. Con un’iniziativa del tutto inedita, il ‘New York Times’ ha lanciato una “campagna per la verità” con spot pubblicitari televisivi (non era mai successo) diffusi ieri sera in tutto il Paese durante la cerimonia degli Oscar. Nei suoi 166 anni di esistenza, quello che rimane uno dei più autorevoli giornali al mondo, non aveva mai sentito il bisogno di denunciare una minaccia tanto inquietante proveniente dalla Casa Bianca. In 37 giorni di presidenza, Donald Trump (“uno dei massimi cultori della post-verità” secondo le parole di Giovanni Merlini su queste stesse colonne) ha accumulato, nell’analisi dettagliata del ‘Washington Post’, ben 140 “fake news”, affermazioni false o fuorvianti. Una situazione estrema: la misura è colma anche per Shepard Smith, il noto columnist dell’insospettabile conservatrice Fox News, che ha sbroccato in diretta denunciando le “bugie ridicole del presidente”. La serie ripetuta di attacchi frontali a uno dei principi fondamentali della democrazia liberale sembra comunque aver sortito, in reazione, effetti positivi: vendite e abbonamenti delle grandi testate indipendenti hanno conosciuto un’impennata. Nel momento in cui molti la davano per moribonda, la stampa libera sembra ritrovare la sua vera ragione d’essere agli occhi di un numero crescente di cittadini di un’America che resiste e difende i propri valori. Che sono anche i nostri.

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