Commento

Se la politica si fa male da sola

(©Ti-Press / Carlo Reguzzi)
17 ottobre 2017
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Trasparenza e chiarezza dei ruoli. Con questi presupposti il Gran Consiglio ha preso ieri una decisione per certi versi storica: i deputati cantonali non potranno più sedere nei consigli d’amministrazione delle aziende statali o parastatali. Di fatto è stata normalizzata una prassi ormai consolidata, vuoi per precisi e recenti dettami legislativi, vuoi per un patto non scritto fra i partiti ticinesi. Quanto deciso ieri, infatti, riguarda esclusivamente le quattro principali aziende cantonali, vale a dire BancaStato, Azienda elettrica ticinese, Azienda cantonale dei rifiuti ed Ente ospedaliero cantonale e solo in quest’ultimo la questione è ancora attuale; negli altri tre casi già da tempo i membri dei Cda sono tutti “laici” o meglio “tecnici” per quanto magari con un trascorso politico alle spalle. Ma la decisione resta storica vuoi perché all’ordine del giorno da decenni, senza mai arrivare a una soluzione, vuoi perché s’inserisce nella dialettica politica-società o anche nel mai sopito dibattito ruolo pubblico-meritocrazia.

Una scelta sofferta – anche perché presa dagli stessi interessati… – che cambia il paradigma grazie a una maggioranza non così evidente (43 contro 36 e 3 astenuti) e già questo dice qualcosa. Il vero obiettivo del cambiamento, hanno detto i sostenitori – di sinistra ma anche di destra –, è la chiarezza dei ruoli nel senso che il controllore (il deputato) non può esercitare anche il compito del controllato (il membro del Cda di un’azienda cantonale). E fin qui il discorso non fa una piega. Resta da capire se il problema è tale da dover buttare via il bambino con l’acqua sporca. E il pargolo, in questo caso, è l’interesse pubblico che si esprime tramite la rappresentanza politica. Le quattro aziende in questione – l’hanno riconosciuto tutti – sono quanto di meglio la collettività ticinese può vantarsi di possedere. Patrimonio collettivo, dunque, creato per il benessere della cittadinanza. Orbene, un conto è la loro direzione tecnica – che presuppone professionalità e meritocrazia – altra cosa è la gestione pubblica, tramite il consiglio d’amministrazione, che dovrebbe pretendere soprattutto una profonda conoscenza del territorio e la più ampia rappresentanza (scelta con libere elezioni) a garanzia di tutte le “parti” principali del Paese. Perché un conto è l’alta vigilanza esercitata da Consiglio di Stato e Gran Consiglio, altra cosa è la direzione strategica (non tecnica) non per forza tesa al profitto finanziario. Anzi.

Gli esempi, anche federali, degli ultimi anni non ci convincono. In molti casi la politica si è limitata a indicare genericamente il mandato di questa o quell’azienda federale, lasciando ai manager le scelte strategiche. I risultati (vedi Posta e Ffs) sono sotto gli occhi di tutti. Un conto è distribuire i mandati in maniera equa, evitando conflitti palesi e interessi poco chiari, altra cosa è appaltare alla “società civile” l’intera attività aziendale pubblica o parapubblica. E di solito s’inizia così. Prima si “cacciano” i politici, poi si propone la trasformazione in società anonima e infine arriva qualcuno che convince il pubblico a farsi da parte. Con la felicità del popolo, convinto di aver suonato per bene tutti i politici certo corrotti e arraffoni. Salvo poi scoprire che almeno questi ultimi, se scoperti, potevi mandarli a casa. Intendiamoci, con la scelta di ieri non si va per forza in questa direzione. E però si è concesso qualcosa. Si è riconosciuto, forse senza volerlo, che sì i deputati cantonali – in quanto politici – possono anche farsi i fatti loro e non quelli degli elettori. Per principio. Se non è un autogol, poco ci manca.

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