L'analisi

Quelle élites anti-élites

9 gennaio 2017
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Ricordate senz’altro: “Quel che è bene per la General Motors, è bene per l’America”, si diceva ai vertici dell’industria automobilistica allora più importante degli Stati Uniti. Non ricordo che qualcuno avesse mai chiesto se valesse anche il contrario, se cioè quanto è bene per l’America possa esserlo anche per la Gm. Sta di fatto che proprio sull’industria dell’auto, Donald Trump, non ancora entrato alla Casa Bianca ma in qualche modo già operativo – in quell’arcaico, lungo periodo di transizione ereditato dai tempi in cui il Paese poteva essere attraversato unicamente in carrozza –, ha subito esercitato la massima pressione. In particolare ordinando alla Ford di non aprire una fabbrica di assemblaggio in Messico se vuole evitare che sulle vetture re-importate negli Usa la futura Casa Bianca applichi alti e scoraggianti tassi doganali. E Ford accetta, annunciando oltretutto la prossima apertura di un impianto in Michigan (700 milioni di investimento per 700 posti di lavoro).
Giuggiole per coloro che confidano nel vangelo protezionista e anti-globalista del 45º presidente Usa; e dunque anche nel de profundis del Trattato nord-americano sul libero mercato (Nafta). Domande: ma come mai tanto senso di generosa responsabilità da parte della Ford? Ed è davvero la rappresaglia minacciata da “The Donald” ad avare determinato il suo “ravvedimento”, che, se messo davvero in pratica, costerebbe al consumatore mille dollari in più per vettura?
In realtà le cose sono più complesse. Primo: Ford non rinuncia affatto a continuare in altri impianti già aperti in Messico l’assemblaggio di vetture che (in base agli accordi Nafta) devono essere costruite al 65 per cento negli Stati Uniti per evitare dazi doganali. Secondo: a sua volta ammonita sull’assemblaggio in Messico del modello Cruz, General Motors ha ricordato al futuro presidente che nel 2016 soltanto 4’500 vetture di quel modello sono state vendute negli Stati Uniti su un totale di 172mila vendute nel resto del mondo. Terzo, e soprattutto: gli imprenditori statunitensi contano moltissimo sulla riforma fiscale promessa in campagna elettorale da Trump, e che dovrebbe portare le imposte delle società dal 35 al 15 per cento. Mica male come scambio: venti per cento di tasse in meno negli Stati Uniti in cambio della non apertura di alcune fabbriche di assemblaggio oltre confine. Ed infatti Mark Field, il Ceo di Ford, ha dichiarato: “Pensiamo che queste riforme fiscali e regolamentari siano di importanza cruciale per rafforzare la competitività degli Stati Uniti”.
È dunque questa la ricetta Trump? Chi eventualmente ne pagherà le conseguenze? Il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz pronostica una nuova, consistente dose di quella che venne chiamata “voodoo economics” di reaganiana memoria: le politiche fiscali promesse da Trump non porteranno grandi vantaggi alle classi media e operaia; e i loro effetti saranno comunque vanificati da tagli alla sanità, all’istruzione e ai programmi sociali, mentre “decenni di sforbiciate alla spesa del governo federale hanno lasciato ben poco da tagliare”.
Ma non era stato uno storico voto contro lo strapotere delle élites economico-finanziarie? Ma la vera conclusione è un’altra: per non aver ottenuto una “mondializzazione governata” (salari minimi, leggi anti-dumping, contratti collettivi, socialità) eccoci servita la presunta “smondializzazione” affidata ad una presidenza americana infarcita di miliardari.

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