Bellinzonese

Permafrost in Ticino, masse in movimento: dove, come e perché

11 ottobre 2017
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Di permafrost si è parlato molto dopo il crollo del 23 agosto sul Pizzo Cengalo. Si è sentito dire che nell’arco alpino la sua riduzione causata dal cambiamento climatico minaccia la stabilità delle montagne; che dovremo attenderci altre frane come quella che ha invaso Bondo; che anche nell’Alto Ticino bisognerà realizzare a medio termine opere di premunizione per contenere eventuali colate. Per chiarire questi aspetti ci siamo rivolti al geologo Cristian Scapozza, coordinatore del Gruppo permafrost Ticino attivo all’Istituto di scienze della Terra presso la Supsi. Il gruppo dal 2009 misura sistematicamente la temperatura del suolo e lo spostamento di sette ghiacciai rocciosi distribuiti nelle Alpi ticinesi fra Valle di Blenio, Leventina e Valmaggia.

Esattamente, nell’arco alpino, cos’è il permafrost? In quanti ghiacciai rocciosi ticinesi è presente? Quanto ce n’è? E qual è la sua funzione?

Il termine permafrost designa semplicemente una parte della crosta terrestre che presenta delle temperature inferiori o uguali a zero gradi centigradi per più di un anno. La definizione di permafrost è quindi basata esclusivamente sulla temperatura, e non implica di conseguenza la presenza di ghiaccio. Anche della roccia, a patto che rispetti la definizione che ho dato prima, può essere permafrost. È chiaro che, dal momento che abbiamo un clima non completamente arido e uno certo spazio tra i detriti di roccia o in fessure della roccia stessa, l’acqua o la neve che dovessero entrare in un terreno definito come permafrost congeleranno, e di conseguenza si avrà la presenza di quantità variabili di ghiaccio. Quando un detrito è saturo di ghiaccio, la miscela di ghiaccio e detriti (si parla di ice-rock mixture) tenderà a scorrere verso valle sotto l’effetto della deformazione del ghiaccio stesso. Ecco che, a questo momento, si formano i cosiddetti ghiacciai rocciosi. Nonostante la prossimità semantica, essi non sono da confondere con i ghiacciai, che sono formati da strati annuali dovuti alla trasformazione della neve in ghiaccio. Se nelle Alpi ticinesi abbiamo poco meno di 50 ghiacciai, i ghiacciai rocciosi che presentano delle condizioni di permafrost conosciuti a oggi sono ben 122, quindi più del doppio. A livello svizzero, il fenomeno del permafrost interessa circa il 5-6% della superficie nazionale, vale a dire circa il doppio della superficie occupata dai ghiacciai. Seppur poco considerata, una delle funzioni importanti del ghiaccio del permafrost, soprattutto nei ghiacciai rocciosi, è quella di fungere da riserva idrica, considerando soprattutto che il permafrost e i ghiacciai rocciosi sono più abbondanti in condizioni climatiche secche, dove i ghiacciai si formano ad altitudini più elevate rispetto a zone più umide.

Si è anche detto, dopo il 23 agosto, che il cambiamento climatico in corso (aumento temperature, meno precipitazioni, più eventi brevi e violenti) mina la salute delle montagne dell’arco alpino. E che in Svizzera dovremo attenderci altri crolli come quello del Cengalo. È davvero così?

Non posso esprimermi direttamente sul caso del Pizzo Cengalo, che non conosco nel dettaglio. In linea generale per l’alta montagna alpina, però, frane di crollo di quella volumetria, che gli specialisti denominano “valanghe di roccia” (quando il volume supera il milione di metri cubi), non sono generate dalla degradazione del permafrost. Il riscaldamento del permafrost è piuttosto generatore di crolli di roccia di volumi più limitati, che si riconoscono per l’aumento della loro frequenza in occasione di estati molto calde, come ad esempio quelle del 2003 o del 2015.

Cosa la preoccupa maggiormente del cambiamento climatico in corso? E meglio, l’arco alpino ticinese presenta situazioni instabili quanto quella del Cengalo?

Sempre restando nella mia area di competenza specifica, che è quella dell’alta montagna, non vi sarebbero nell’area ticinese dei grandi volumi instabili dovuti direttamente all’azione del ritiro dei ghiacciai o alla degradazione del permafrost. Vi sono però delle masse di ghiaccio e detriti, i ghiacciai rocciosi presentati in precedenza, che stanno avanzando sempre più velocemente e che potrebbero potenzialmente presentare, in un prossimo futuro, delle destabilizzazioni che li trasformino in vere e proprie frane.

È vero che il permafrost ‘si sta riducendo,’ o ‘si sta sciogliendo,’ come si è sentito ripetere più volte? Qual è la conseguenza di questo processo?

Su questo punto è necessaria una precisazione importante. Il permafrost, essendo uno stato termico, non si può “sciogliere”. Semmai è il ghiaccio contenuto in un terreno sottoposto a condizioni di permafrost a fondere. Nell’immaginario comune, si ha tendenza ad associare la fusione del ghiaccio con l’instabilità di detriti o pareti rocciose che prima erano gelate. In realtà, l’instabilità massima non si presenta quando è il ghiaccio a fondere, ma piuttosto all’interno della fase gelata. Sembrerebbe che la temperatura critica sia quella di -0,5 °C, dove il ghiaccio è talmente plastico, vale a dire che si deforma molto facilmente, da favorire i movimenti accelerati di detriti o parti di pareti rocciose gelate. In altre parole, a generare le instabilità è il riscaldamento del permafrost stesso fino alla temperatura critica di -0,5 °C e non lo scongelamento dei terreni gelati in sé.

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