L'analisi

Ora tocca all’Europa

3 ottobre 2017
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Arrotondando: il 90 per cento del quaranta per cento degli elettori catalani ha votato domenica a favore dell’indipendenza. Dichiararla sulla base di queste cifre sarebbe ridicolo, se non fosse un abuso. E la dirigenza indipendentista, che ha forzato lo scontro con Madrid per compensare un vistoso calo di popolarità (confermato dalle ultime elezioni democratiche tenute nella Generalitat), ne porta l’intera responsabilità. Con essa lo sono i padroni della macchina propagandista – a partire da quell’infallibile meccanismo di lavaggio del cervello che è il pallone – riusciti a imporre l’equivalenza tra il non voler avere più nulla da spartire con la Spagna e lo status di nazione oppressa; tra l’arroganza di una regione ricca e un diritto storico; tra una rivolta fiscale e il diritto dei popoli all’autodeterminazione. Tra, soprattutto, separatismo e indipendentismo. Segno dei tempi.

Anche per questo la responsabilità, anzi la colpa di Mariano Rajoy per quanto è andato in scena nelle ultime settimane e domenica in specie, è direttamente proporzionale al potere di cui dispone, vale a dire la più grande. Il capo del governo spagnolo (a sua volta fortunosamente al suo posto in virtù di due successive, ravvicinate e inconcludenti elezioni politiche) non solo non è stato all’altezza della più grave crisi nella storia della Spagna democratica, ma ha concorso ad aggravarla, fino al punto di apparente non ritorno.

Avere la legge dalla propria parte – e una necessaria intelligenza politica avrebbe dovuto suggerirglielo – non autorizza a disconoscere la realtà di un fenomeno come quello che ha preso forma in Catalogna, comunque lo si consideri, e soprattutto quando (fu suo il ricorso contro l’Estatut del 2006) si è stati parte attiva nell’impedire che il confronto avvenisse nell’alveo delle procedure democratiche. Gli è parso più facile affermare che in ogni caso il referendum illegale non si sarebbe svolto, e per impedirlo inviare la Guardia Civil a sparare proiettili di gomma sui catalani in fila davanti ai seggi.

Niente perciò sarà più come prima, e non è una frase fatta, ma la constatazione di un disastro. Ipotizzare a questo punto la ripresa di un confronto tra Spagna e Catalogna (con tutto che la Catalogna è ancora Spagna) è quindi ben difficile. Le persone che vi si dovrebbero investire sono screditate – o tali si accusano vicendevolmente d’essere – e ogni previsione sembra piuttosto la proiezione di un desiderio, se anche una testata di riconosciuta autorità come ‘El País’ chiama “astensione” l’impedimento opposto dalla polizia ai molti che invece avrebbero votato.

La dichiarazione unilaterale di indipendenza – pur prevista dalla legge catalana che convocava il referendum, e di nuovo evocata ieri dal presidente Carles Puigdemont – sarebbe un atto estremo e irresponsabile, per la reazione che scatenerebbe e per il vuoto che si farebbe attorno a Barcellona. Ma pur “dichiarata”, l’indipendenza resterebbe soggetta all’approvazione dell’Assemblea regionale, dove i deputati favorevoli all’indipendenza sono sessanta, tre in meno dei contrari (lo erano prima delle violenze di domenica).

Più in là non è possibile spingersi nell’immaginare scenari, ma già ora ci si può augurare che le istituzioni europee, i governi e i parlamenti, si attribuiscano (o inventino, se non c’è) un ruolo forse non contemplato nelle leggi comunitarie, ma reso necessario dall’imporsi della realtà, che consenta di offrire agli spagnoli, quantunque catalani, una mediazione (o la si chiami altrimenti) per riprendere un discorso di ragione.

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