Tecnologia

Non starmi indosso

La tecnologia indossabile, per ora, non sfonda
2 febbraio 2016
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Google cestina i propri occhiali intelligenti e gli orologi computerizzati, per ora, non sembrano prendere piede. Il mercato dei dispositivi indossabili parte in sordina: non ha ancora trovato il suo posto. Ma probabilmente è solo questione di tempo. L’esperto: ‘Non li uso ancora, ma è solo questione di trovare l’applicazione giusta’.

Marc Langheinrich non usa uno smartwatch e non porta occhiali intelligenti. Marc Langheinrich è professore all’Usi, si occupa di tecnologia indossabile, ma non la indossa. Per ora. «Ho avuto per qualche tempo un braccialetto per il fitness, ma era scomodo», confessa. «Non porto uno smartwatch perché per ora non ha delle funzionalità che ritengo utili. E poi la batteria dura troppo poco e lo schermo si spegne per risparmiare energia, il che lascia il quadrante inusualmente vuoto. Quando potrà fare qualcosa in più del semplice mostrare notifiche, allora potrei pensare di comprarne uno». Forse proprio questa immagine – quella dell’esperto di ‘wearables’ che non usa ‘wearables’ («È pure vero che non porto un orologio da 15 anni») – illustra più di altre le difficoltà dei computer indossabili nel trovare il proprio posto al mondo. Difficoltà evidenti che sono sfociate nell’abbandono, da parte di Google, del progetto di occhiali computerizzati, che si evidenziano nelle vendite di Apple Watch – buone ma non stellari – e che traspaiono dalle cifre degli analisti, secondo cui il mercato risulta tiepido su questo segmento. Già perché orologi, braccialetti, auricolari, catenine e occhiali potenziati circolano ancora poco, con la sola eccezione dei braccialetti fitness, in grado di calcolare calorie bruciate e chilometri percorsi. Nel terzo trimestre del 2015, stando all’azienda di ricerche di mercato Idc, tra giugno e settembre la FitBit ne ha venduti 4,7 milioni in un mercato che ha raggiunto i 21 milioni di pezzi commercializzati. Apple, nello stesso periodo, si è fermata ai 3,9 milioni di Apple Watch. Poco se si considera che nello stesso periodo il solo iPhone, pur registrando una flessione negli acquisti, ha toccato quota 47,5 milioni. Una cifra che, stando a Idc, l’orologio di Cupertino toccherà solo attorno al 2019. Insomma, il mercato non decolla. Manca qualcosa ai dispositivi indossabili per diventare davvero un oggetto feticcio? «Sviluppare applicazioni per uno schermo molto piccolo, come quello degli smartwatch, è un compito parecchio complicato, soprattutto in un contesto dove i telefonini diventano sempre più grandi: non è possibile semplicemente convertire un software per smartphone in uno per smartwatch. Credo ci vorrà un po’ di tempo affinché si sviluppino applicazioni e funzionalità utili per i dispositivi indossabili. Un passo che non può prescindere dal fatto di capire cosa le persone vogliono fare con il proprio gadget». C’è però anche la questione della batteria... Insomma, chi ha voglia di dover caricare anche il proprio orologio quando già tutte le sere si ritrova a dover ricaricare il telefono? «Indubbiamente è un aspetto fastidioso. Tuttavia in futuro questo aspetto potrebbe essere mitigato prevedendo una ricarica senza fili, magari innescabile semplicemente appoggiando l’apparecchio sul comodino. In alternativa, o in aggiunta, si potrà tentare di ridurre il consumo energetico utilizzando schermi meno dispendiosi. Sarà poi l’utente finale a decidere se preferirà display di alta qualità o tempi di utilizzo più lunghi. Le potenzialità dei ‘wearables’ sono comunque enormi: «Si tratta di un nuovo modo di fruire le informazioni e di controllare i propri dispositivi. È comunque vero che, di principio, per soddisfare queste condizioni non sia per forza necessario progettare un orologio completamente digitale, come l’Apple Watch. Potrebbe trattarsi di dispositivi ibridi, in parte computer e in parte orologi tradizionali». Conta però anche il fatto che, diversamente da altri apparecchi, qui si toccano corde tipiche della moda, dei gioielli?  «Vero, ma è anche vero che sia Google che Apple non siano state prese di sorpresa su questo punto. D’altronde anche gli smartphone sono, in qualche modo, oggetti di moda. Per restare agli smartwatch, molti modelli cercano di essere alla moda, ‘fashion’. Ciò non vuol però dire che ci riescano». Difficile quindi dire perché gli indossabili non stiano mantenendo le promesse, fa notare Langheinrich. «Il mercato non sta reagendo come qualcuno avrebbe previsto, ma rispetto ai cicli normali di adozione delle novità, non siamo poi così fuori strada. Certo, Google Glass ha fallito perché è diventato un oggetto ‘nerd’, eppure ha avuto il pregio di dimostrare le potenzialità di quella idea. Basta osservare cosa succede per strada: le persone sono immerse nei loro telefoni, indice che vi è una necessità di essere intrattenuti mentre si cammina. In questo quadro, proiettare lo schermo sugli occhiali quindi potrebbe essere interessante. Anche perché si eviterebbe di cozzare contro pali della luce». Tra dieci anni, rileva Langheinrich, «una tecnologia simile sarà integrabile in occhiali di tutti i giorni. Entro 20 anni approderà nelle lenti a contatto». Per ora è realtà solo in alcuni occhiali da sci, dove lo schermo integrato mostra velocità, quota, percorso e analisi dei salti.

L’esperto

Marc Langheinrich è professore associato presso la Facoltà di scienze informatiche dell’Università della Svizzera italiana. Attualmente si occupa di due progetti di ricerca. 
Il primo, denominato Sharing21, studia il fenomeno della condivisione di contenuti da parte degli internauti. L’accento è posto in particolare sulla sicurezza e sulla privacy: capendo cosa gli utenti condividono si vogliono sviluppare delle interfacce innovative  per permettere alle persone di mantenere il controllo dei propri dati.  «Un ambito su cui ci stiamo concentrando è quello sportivo – spiega Langheinrich –. Ad esempio studiamo come un gruppo di amici che sciano insieme possa condividere delle informazioni. E questo anche attraverso apparecchi che in futuro indosseranno. Una persona potrebbe, per esempio, segnalare una zona pericolosa. Gli altri riceverebbero la notifica sulla cartina integrata negli occhiali oppure, tramite la realtà aumentata, la vedrebbero sovrapposta alla mappa fisica che tengono in mano». Il secondo progetto, ‘Recall’, ambisce a ridefinire in maniera tecnologica alcune metodologie di aiuto alla memoria. Ad esempio, indossando una telecamera che scatta foto ogni 30 secondi, sarà pensabile programmare un sistema automatico per far riproporre sullo smartphone il volto di una persona cui ci si è presentati tempo prima. Oltre all’immagine, il sistema suggerirebbe pure l’iniziale del nome. Lo scopo è quello di allenare l’utente a ricordare il nominativo della persona ritratta.

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