Impact Journalism

Non c’è aiuto senza diritti

Un attimo di relax
24 giugno 2017
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Hanno scelto il mare Michael Räber e sua moglie Rahel, su un’isola delle Cicladi. Era l’estate 2015. Quelle stesse acque, fra Turchia e Grecia, quell’anno sono state attraversate da circa 856 mila migranti, per un totale di un milione di persone approdate in Europa, in cerca di un futuro. Uomini, donne e bambini in fuga dal conflitto siriano, ma pure da Afghanistan, Nigeria, Iraq, Eritrea e da altri stati africani e asiatici piegati dalla guerra, dalla fame, dalla dittatura. Nel 2016, dopo gli accordi fra Unione Europea e Turchia, e la chiusura della rotta balcanica, gli sbarchi sono stati circa 361 mila, poco meno della metà dei quali in Grecia: il Mediterraneo, però, ha inghiottito ancora 5'000 vite umane, più di ogni anno precedente*.

Quello stesso mare, le persone che lo hanno solcato spinte da disperazione e speranza, hanno cambiato la vita di Michael; informatico, ex capitano dell’esercito svizzero, una persona qualunque senza alcuna esperienza a livello di attività umanitarie, ma «che si è trovata ad entrare in questa realtà e ne è stata toccata, non potendo accettare il fatto che degli esseri umani vengano trattati così, oggi, in Europa». Ad Atene, ormai prossimo a rientrare a Kiesen, un migliaio di anime a sud di Berna, quel che ha visto lo ha segnato a fondo: «È difficile spiegare. Certo, eravamo informati di quanto stava succedendo nel Mediterraneo, ma senza averlo incontrato. Quel giorno ho visto dei ragazzini sbucare dalla metropolitana con degli zaini forse più grandi di loro. Dopo averli conosciuti, ci siamo sentiti toccati personalmente e abbiamo deciso di fare qualcosa. Non c’era più quella distanza che aiuta a non vedere».

Sono bastati due giorni, d’accordo con Rahel, per decidere di non tornare a casa. «Senza un vero piano», Michael si è trovato a cucinare per centinaia di senzatetto ad Atene. Il passo successivo è stato “schwizerchrüz.ch”: «Un’idea di mia moglie, io non immaginavo che questo dominio fosse libero… Per noi rappresenta la tradizione umanitaria svizzera, quella che vorremmo far propagare». Michael sottolinea che “schwizerchrüz” non è un’associazione né una Onlus, piuttosto un network di privati cittadini che ha coinvolto circa 500 volontari da Svizzera, Germania e altri stati europei. In questi due anni Michael ha così attivato un profilo Facebook sempre aggiornato e ha raccolto fondi, ha cucinato e soccorso gommoni di migranti in difficoltà, ha distribuito migliaia di scarpe nel campo profughi di Idomeni, ha affittato uno spazio sull’isola di Lesbo e lo ha messo a disposizione dei migranti, ha contribuito a progetti analoghi ad Atene e Izmir.

L’idea alla base di questo lavoro è semplice, come dimostra “One Happy Family” a Lesbo: «Sono stati i migranti a costruire questo centro e sono loro a gestirlo. Questo fa la differenza, perché possono sentirsi un po’ a casa. Per noi è importante il rispetto e riconoscere i loro diritti, in modo che possano agire da soli. Questa è una discussione aperta con le grandi organizzazioni, perché loro sono più “need based” che “right based”. Loro li aiutano a soddisfare i loro bisogni, noi vogliamo ridargli i loro diritti, in questo modo possono aiutarsi da sé nei loro bisogni».

La storia di Hanas, un ragazzo siriano, dimostra che in questo modo non solo possono provvedere per sé, ma pure aiutare i nuovi migranti: «Lui era uno dei tanti in un campo a Salonicco, lì ha iniziato a lavorare con noi. Quando quell’esperienza si è chiusa, ha proposto un progetto ad Atene per alloggiare le donne sole con bambini». Così sono stati trovati dei fondi, una residenza ad Atene e il progetto è partito, coinvolgendo degli attivisti che possono supportare Hanas.

Questo, spiega Michael, ha un'altra ricaduta positiva, determinante su tempi lunghi: «Abbiamo un po’ modificato l’immagine delle persone in fuga: hanno potuto mostrare i loro talenti e le loro risorse».

Un momento rimasto impresso nella sua memoria? «Un’operazione di salvataggio in mare, nell’inverno 2015, durante una notte di tempesta: era chiaro che quelle persone stavano fra la vita e la morte. C’era una barca con più di 300 persone a bordo, a 15 metri dalla riva, fra le onde. È stato terribile, è durato due o tre ore, ma alla fine li abbiamo portati tutti in salvo».

Sono come ricordi di un’altra vita, di un’altra realtà. Mentre gli parliamo Michael è in Svizzera con sua moglie, in attesa della nascita del loro bambino. Ritornerà alla sua vita a Kiesen? «Non credo che tornerò al mio progetto di business, né penso di poter tornare presto in Grecia. Ma ci sono tanti amici volontari sul campo e noi possiamo essere di aiuto da qui mettendoli in relazione, supportandoli, cercando i fondi per realizzare i nostri progetti».

Già, molte persone, di fronte a questa crisi epocale si chiedono che cosa posso fare io? «Si può protestare con il denaro e supportare dei progetti. Si può andare di persona in Grecia, come volontari, incontrare i volontari al lavoro. Oppure si può avvicinare una persona o una famiglia di migranti, offrire loro una relazione personale in Svizzera, perché spesso provengono da paesi in guerra e si ritrovano in un paese di cui non sanno niente. Anche solo conoscere qualcuno fa la differenza, ed essere quel qualcuno può essere l’inizio di un processo positivo».

Il motto di Michael? “Combattiamo per l’umanità. Ci aspettiamo di vincere”.

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