Inchieste

Nella mente dei carcerati fra angosce e patologie

(Benedetto Galli)
14 maggio 2015
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Disciplina, mediazione, colpa, giustizia, disagio, conflitti, speranza. Sono tutti concetti che riempiono il carcere e che si compenetrano in un labirinto con tanti percorsi possibili. Questo, come spiegano alla “Regione” i due specialisti Fmh in psichiatria e psicoterapia che fanno parte del Servizio medico-psichiatrico delle strutture carcerarie ticinesi, in considerazione della moltitudine di variabili in gioco.

Incaricati dal governo, su mandato, di operare in un team di lavoro composto anche da internisti, psicologi e da un’infermiera psichiatrica, gli specialisti in psichiatria e psicoterapia chiedono l’anonimato in primo luogo per spersonalizzare la loro funzione. La scelta non è estranea alla posizione di neutralità che deve contraddistinguere il corpo medico rispetto al contesto in cui opera. Neutralità ma anche sovranità nelle decisioni, «perché è fondamentale che la medicina non diventi uno strumento per mantenere – o, preventivamente, per indurre – la disciplina all’interno del carcere». Con questo si intendano misure come il ricovero psichiatrico o la somministrazione di medicamenti. «Ogni singolo caso viene valutato con attenzione per escogitare una risposta adeguata al bisogno effettivo del detenuto – dicono –. Risposta che è sempre da cercare all’interno di un triangolo ai cui vertici ci sono la Legge sulla protezione dei dati, la Legge sanitaria e il Codice penale».

La centralità di ruolo del corpo medico – e in particolare della sua componente legata alla cura dei detenuti con problemi psichici – è evidente se consideriamo che la carcerazione è ai vertici della classifica degli eventi psicosociali stressanti. Questo già a partire dal momento dell’entrata, quando la naturale situazione di shock può sviluppare forti disturbi dell’adattamento; una «condizione stressante intensa – per dirla con gli psichiatri – che può generare una sintomatologia anche clamorosa».

Va messo in conto il fatto che molti detenuti entrano in carcere sotto l’effetto di alcool, oppiacei, cocaina, anfetamine e droghe stimolanti, il cui possibile e imprevedibile effetto delirante non favorisce un approccio controllato alla nuova condizione. Condizione che varia, ovviamente, fra chi finisce in cella per la prima volta e chi invece ha già vissuto un’esperienza simile e dispone quindi di una sua propria cultura carceraria. La condizione psicologica dei neofiti dipende molto dalla presenza di una patologia psichiatrica preesistente (della quale, fra l’altro, il reato contestato è spesso uno dei sintomi costitutivi). Ed è una casistica, quella degli psicotici, piuttosto presente in carcere. Lo è comunque in percentuale nettamente superiore rispetto ai casi diagnosticati nella pratica medica (fra l’1 e il 2%). Lo stesso discorso vale per il tema della suicidalità, vista la frequenza con cui emergono le cosiddette “ideazioni suicidali” (che nella società libera interessano statisticamente non più di 30 persone su 100mila). Una variabile delicata è l’individuazione delle ideazioni suicidali nei detenuti che non le confessano apertamente, non offrono riscontri oggettivi e non hanno già una patologia psichiatrica. In quei casi solo l’attenzione e l’esperienza del team medico al completo possono aiutare. Laddove il problema sia conclamato o individuato, viene istituita in carcere, su proposta del Servizio medico, una sorveglianza continua costituita da controlli visivi del soggetto sull’arco delle 24 ore, a frequenza variabile. «Il rovescio della medaglia è che questo tipo di misura influisce molto sulla privacy e può determinare un regime di carcerazione in qualche modo degradante. Siamo costretti, per la sicurezza del detenuto, a privarlo di qualsiasi oggetto potenzialmente pericoloso, e con questo possiamo intendere persino determinati indumenti, oltre alle lenzuola».

Fantasie pericolose

Questo tenendo conto della pressoché inesauribile fantasia che il carcerato sviluppa nella ricerca di opportunità che gli consentano di farsi del male. Non è un caso che nelle strutture carcerarie i cavi della Tv siano corti e che la presa dell’elettricità sia situata molto in alto. Nei casi di ideazioni suicidali una soluzione praticata dagli addetti è la condivisione della cella con un altro detenuto, «ma è chiaro che questa valvola di sfogo può rivelarsi un’autentica tortura per il detenuto “ospite” del caso problematico», nota lo psichiatra. L’ultima ratio in alternativa alle celle ospedaliere presenti nella Clinica psichiatrica cantonale – il cui ricorso deve in ogni caso essere approvato dal diretto interessato – è la cella di contenimento, dove i rischi di farsi del male sono logisticamente ridotti al minimo. «Si tratta in ogni caso sempre di una soluzione transitoria, applicata nell’emergenza, nell’incertezza o in situazioni di crisi», precisa lo psichiatra.

Alla luce di tutto questo, e di molto altro, appaiono evidenti le estreme difficoltà quotidiane cui è confrontata l’intera popolazione carceraria, intesa non soltanto come contingente di detenuti, ma anche come apparato di sorveglianza, che ha anche a che fare con una “categoria” particolarmente infida e difficile da trattare: quella dei “professionisti del carcere”, i detenuti con una vasta esperienza carceraria maturata in Europa e non solo, che in galera, per dirla in tre parole, giocano in casa. In questo senso è provvidenziale il servizio di psichiatria del carcere, attivo 24 ore su 24 e strutturato per rispondere alle necessità di sostegno immediato non soltanto dei detenuti, ma anche di chi è chiamato a sorvegliarli.

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