L'analisi

L'incendiario di Gerusalemme

6 dicembre 2017
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L’incendiario ha il fiammifero in mano. Acceso. Una sua parola e la fiamma divamperà. Il solo annuncio della volontà di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme quale capitale indivisibile di Israele, e di trasferirvi l’ambasciata Usa da Tel Aviv, ha reso incandescente una situazione surriscaldata. Quando questo avverrà, sarà tardi per contenerne gli effetti disastrosi su Gerusalemme stessa e sull’intera regione mediorientale.

Non si tratta tuttavia di uno sviluppo sorprendente: era una promessa elettorale di Trump che, una volta in carica, aveva nominato ambasciatore in Israele David Friedman noto sostenitore del movimento dei coloni; affidando poi l’incarico di rianimare il “processo di pace” al genero Jared Kushner, il cui solo titolo è di essere un cocco della destra ebraica negli Usa.

Non stupisce, dunque, il passo di Trump, nondimeno sconcerta la sua deliberata avventatezza. Risale al 1995 – votata a larghissima maggioranza da repubblicani e democratici e firmata dal presidente Bill Clinton – la legge statunitense che riconosce Gerusalemme capitale indivisibile di Israele e impone di trasferirvi l’ambasciata Usa, accordando tuttavia al presidente la facoltà di sospenderne l’applicazione ogni sei mesi qualora minacci o contrasti con gli interessi nazionali. Sinora non c’è stato presidente, democratico o repubblicano, che non l’abbia fatto. Trump stesso vi ha già provveduto una prima volta.

Perché si sia risolto ora a rovesciare il tavolo è ben difficile dirlo: vi sarà il “conto” presentatogli dai finanziatori della sua elezione; vi sarà la necessità di distrarre l’opinione pubblica; ma soprattutto a rendere insondabile una decisione fuori da ogni razionalità diplomatica o strategica (qualunque cosa si pensi della questione israelo-palestinese) ci sono la smisuratezza patologica dell’ego trumpiano e la politica erratica che ne deriva.

Già ora è prevedibile la portata destabilizzante della decisione. Strumentali o no che siano (quando c’è di mezzo Erdogan…) le prime reazioni da parte palestinese, araba o genericamente “islamica” fanno prevedere tempesta. Ma non solo quelle: ieri venticinque ex ambasciatori e accademici di Israele hanno sollecitato l’Amministrazione Usa a desistere dalla decisione; qualche governo europeo, con la consueta pavida cortesia, ha fatto altrettanto.

Il piano Onu di partizione della Palestina del 1947 prevedeva per Gerusalemme uno status di extraterritorialità che ne assicurasse l’accesso ai fedeli di tutte le confessioni. Gli arabi lo respinsero. Da allora, e con più determinazione dalla conquista di Gerusalemme Est nel corso della “Guerra dei Sei Giorni” nel 1967, Israele ha fatto la stessa cosa: imponendo uno stato di fatto sul terreno e architettando un quadro giuridico che ne rendessero impossibili la partizione o lo status di “città aperta”. A compimento di un disegno squisitamente politico, che tradisce il suo vizio di origine ammantandosi di termini che rimandano a una superflua escatologia: “Capitale eterna”, “da tremila anni” eccetera.

Storie. In politica, ma neppure nella storia dei popoli, non c’è niente di eterno. Ci sono la forza dei prepotenti e, assai raramente, quella che fa vincere i miti. Mai, comunque, a Gerusalemme.

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