L'analisi

La miccia di Trump

27 dicembre 2016
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È possibile, anzi probabile, che si stia di nuovo accendendo la miccia che velocemente può far riesplodere la ‘dimenticata’ questione israelo-palestinese. Mentre proprio su questa crisi irrisolta, il presidente americano uscente e quello entrante, in uno scenario polemico mai visto nella fase di transizione, sottolineano nei fatti la loro distanza. Da una parte, per la prima volta nella storia fra Stati Uniti e Stato ebraico, la Casa Bianca, ancora per poco di Obama, fa mancare il veto che in sede Onu ha sempre evitato ad Israele di essere condannata dal Consiglio di sicurezza per l’occupazione dei territori palestinesi: compresa la parte araba di Gerusalemme, che in mezzo secolo ha mutato il volto della città non soltanto nel centro storico, ma anche e soprattutto sulle colline circostanti, trasformandole in ‘fortezze residenziali’: una clamorosa violazione del diritto internazionale, quella della periferia di Gerusalemme, di cui, chissà perché, non si parla mai, o pochissimo. Sull’altro fronte della politica statunitense, ecco che Donald Trump nomina invece, quale rappresentante della superpotenza a Tel Aviv, l’ambasciatore più filo-israeliano scelto da un presidente statunitense da quando esiste lo Stato di cui fu padre Ben Gurion. Cosa ci dicono queste due quasi simultanee notizie? Che Barack Obama, con una mossa che sa di ripicca, fa la cosa giusta, ma in modo assolutamente tardivo e velleitario. Dalla guerra dei sei giorni l’occupazione militare di Cisgiordania e Gaza è condannata dalla comunità internazionale, e Israele ha violato tutte le risoluzioni Onu (centinaia) che di volta in volta ne ribadivano l’illegalità. Per otto anni lo stesso Obama si era comportato esattamente come tutti i suoi predecessori, bloccando le risoluzioni di denuncia di Israele sull’argomento. Che cambi politica ad appena tre settimane dall’arrivo del suo successore, è francamente triste, ipocrita e paradossale. Non può scoprire soltanto ora che, come ha detto la sua ambasciatrice all’Onu, «è impossibile sostenere allo stesso tempo la soluzione dei due Stati (uno israeliano e l’altro palestinese) e gli insediamenti dei coloni», che sono uno dei principali ostacoli ai colloqui di pace. E poi c’è Donald Trump. Che i numerosi simpatizzanti occidentali considerano la quintessenza del pragmatismo, ma che anche su questo versante opera scelte radicali. Nomina infatti ambasciatore in Israele David Friedman, avvocato specialista in cause di fallimento (Trump ne avrà avuto bisogno in passato?), e la cui seconda attività è l’assoluto, ideologico, e concreto sostegno al peggio prodotto dalla politica israeliana. Infatti, è favorevole all’occupazione israeliana, addirittura co-finanzia un movimento di coloni, ha pubblicamente auspicato l’annessione di alcune parti della Cisgiordania, ha auspicato il trasferimento dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, e ha spregiativamente definito «kapò» – quindi collaborazionisti – i sostenitori israeliani della soluzione dei due Stati. Cose che il premier Benjamin Netanyahu pensa senza poterle dire tutte. Insomma, più che il rappresentante della potenza planetaria, l’uomo scelto da Trump sembra un deciso sostenitore e militante delle posizioni più oltranziste dell’attuale governo israeliano, dominato dai nazional-religiosi. E se applicasse anche una sola ricetta del suo uomo in Israele, il neopresidente degli Stati Uniti accenderebbe un’autentica miccia nel cuore del dramma vicino-orientale.

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