Commento

La madre di tutte le guerre

15 aprile 2017
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L’aveva detto e lo ha fatto. “Nessuno potrà più sfidare gli Stati Uniti senza subirne le conseguenze”. Ma della esibita volontà di potenza di Donald Trump sono soprattutto il contenuto di millanteria e la pretestuosità della “sfida” a dover preoccupare. È difficile non vedere nel raid missilistico sulla Siria e sul lancio della superbomba in Afghanistan il petto gonfio del bullo, piuttosto che un cambio di strategia (che richiederebbe, appunto, l’esistenza di una strategia). Anche in termini di risultati, infatti, l’uno e l’altro non sembrano aver prodotto un granché: il regime di Assad è stato appena scalfito dalla pioggia di Tomahawk seguiti al bombardamento chimico su Kahn Sheikhun; mentre i danni causati all’Isis dalla “Madre di tutte le bombe” restano da verificare. Secondo l’ultimo bilancio, un ordigno di dieci tonnellate di esplosivo e dal costo stratosferico ha fatto meno morti di quelli provocati a Nizza da un terrorista low cost alla guida di un camion. In questo senso, lo “straordinario successo” vantato da Trump è l’equivalente speculare dei “successi” vantati dall’Isis per ogni pugnalata inferta da un invasato in una città della nostra parte di mondo: propaganda.
Ma non è solo questo. Gli analisti hanno parlato di “segnale” alla Russia, alla Cina, alla Corea del Nord, al mondo. Ammesso che lo sia, bisogna chiedersi quale è il suo contenuto. Forse l’annuncio del ritorno di un’America (più vagheggiata che reale) che associa potenza militare e mezzi diplomatici per governare il mondo e determinare gli esiti delle crisi regionali? Niente autorizza a dare credito a questa ipotesi: non le contraddizioni del discorso pubblico di Trump, né le conflittuali attitudini dei suoi collaboratori più stretti. Se possibile, la rozzezza di Trump supera il provincialismo di Bush junior e persino l’arroganza di Ronald Reagan, che pure agivano in condizioni più favorevoli agli Usa. George W. reagì all’attacco dell’11 settembre provocando uno dei più grandi disastri strategici della nostra epoca. Reagan – al quale sembra ispirarsi Trump secondo chi individua nella sua accelerazione bellicista la volontà di “vedere” il bluff russo – cercò e vinse il confronto con Mosca, ma solo grazie a un declino dell’Urss già in corso e alla drammatica svista di un Mikhail Gorbaciov che “si era fidato”.
Il mondo a cui oggi Trump mostra i muscoli non è più lo stesso. Non è detto che se ne renda conto, abituato com’è ad affermarsi nel business truccando le carte. A Mosca governa un Putin determinato a riscattare proprio ciò che Gorbaciov perse (e poco conta che sia a capo di una potenza con le pezze al sedere, se il confronto è militare). Mentre la Cina non solo detiene una fetta enorme del debito estero Usa, ma ha esteso il proprio controllo su mari che sono il crocevia dei più ricchi commerci mondiali, “si è presa” la parte fertile dell’Africa, e dove pone piede non lo sposta, qualsiasi bandiera battano le portaerei che vi si avvicinano.
Se lo scenario è questo, ogni mossa di Trump non può che concorrere a destabilizzarlo. Gli autocrati che la sua propaganda dice di voler ridurre all’impotenza, Kim Jong Un per primo, saranno ben lieti di essere all’opera con lui.

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