L'analisi

La bomba e lo zar ferito

4 aprile 2017
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Qualunque ne sia la matrice, il bersaglio dell’attentato di San Pietroburgo, città carica di straordinarie memorie storiche, per la prima volta colpita dal terrorismo, è anche altamente simbolico. E coinvolge personalmente Vladimir Putin.
Non solo per la sua presenza nella seconda città russa, circostanza difficilmente casuale per la regia di chi ha organizzato questa strage. Per Putin, l’ex Leningrado, riconsegnata al suo nome originale dopo la rovinosa caduta del comunismo sovietico, è infatti qualcosa di più. Molto di più. Sulle rive della Neva è nato, ha fatto i suoi studi, ha mosso i primi passi in politica, è decisamente emerso grazie al sodalizio con l’allora sindaco Anatolj Sobcjak, suo ex docente universitario, e decisivo nell’ascesa di Vladimir Vladimovic sulla scena nazionale. Dunque, se intendevano colpire personalmente e nell’intimo il “nuovo zar”, gli attentatori non potevano scegliere il bersaglio con più cura e precisione.
Certo, non c’era bisogno dell’assassina deflagrazione nella metropolitana di San Pietroburgo per avere la conferma che per i manovali del terrore non esistono santuari irraggiungibili, e che nemmeno la spiccia e muscolosa democrazia del capo del Cremlino può scongiurare la furia, magari con ordigni rudimentali ma sempre micidiali, di un tipo di violenza senza frontiere.
Che del resto aveva già colpito la Russia a più riprese: dalle donne kamikaze nella sotterranea di Mosca al teatro Dubrovska della capitale, fino alla strage di Beslan nell’Ossezia del Nord con il primato di vittime, più di trecento, la metà bambini. Blitz sanguinosi. E innocenti caduti nella mani della rappresaglia partita dai mujahiddin della Cecenia, terra ribelle e (non dimentichiamolo) ricca di petrolio, secessionista anche nel nome dell’Islam, “normalizzata” da Putin col ferro e col fuoco prima di essere consegnata alla terrorizzante guida del lealista Ramzan Kadyrov. Una repressione feroce. Una ferita ancora aperta. Ed è poi dal Caucaso che sono partiti foreign fighters islamisti per i teatri di guerra jihadisti in Medio Oriente, ma anche un battaglione istruito e inviato dallo stesso Kadyrov nel feroce assalto alla città martire di Aleppo, a fianco di russi e soldati siriani.
Un micidiale intreccio, che si proietta sulla strage di ieri, mentre sui social naviga l’entusiasmo di seguaci e militanti delle pratiche jihadiste. Che certo vogliono punire la Russia protettrice di Assad, e ormai protagonista e grande regista della vicenda siriana.
Per le sue modalità, stavolta le impronte cecene sembrano meno nette sull’ordigno esploso e su quelli ritrovati nelle viscere di San Pietroburgo. Vladimir Putin, alle prese con la prima forte contestazione di piazza dopo diversi anni, rafforzerà di certo la sua popolarità come uomo d’ordine e di riscatto nazionale. Ma comunque ferito, vulnerabile, come del resto già rivelarono l’assassinio del suo ambasciatore ad Ankara e l’aereo russo abbattuto nei cieli del Sinai. La lotta al terrorismo (che andrebbe comunque valutato anche per le sue origini) non si vince da soli. Nemmeno quando si tratta dell’uomo diventato una sorta di icona dei metodi forti.

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