L'analisi

Il problema Erdogan

11 marzo 2017
|

L’Europa ha un problema con la Turchia. Non da oggi, né la sola Ue, come mostra l’impaccio con cui anche la Svizzera sta gestendo (o tentando di impedire) i comizi di politici turchi per il referendum costituzionale, rimpallando tra autorità locali e federali la responsabilità di dire sì o no, e adducendo pur plausibili “ragioni di sicurezza” per obiettare alla tenuta delle riunioni. Analogamente, in Germani il governo di Angela Merkel è stato molto prudente, e a sua volta ha demandato alle autorità locali le decisioni. Con esiti talora grotteschi: tali le “lacune del sistema antincendio” della sala scelta, per non autorizzare un discorso del ministro degli Esteri turco Cavusoglu. Il quale ha rilanciato annunciando che avrebbe parlato dal balcone del consolato di Amburgo, accusando Berlino di utilizzare “metodi nazisti”, come aveva fatto il presidente Recep Tayyip Erdogan.
Eccolo, il problema: Erdogan. L’autocrate di Ankara ha quasi completato la reislamizzazione delle istituzioni dello stato laico kemalista, espellendone i residui esponenti dai vertici dell’esercito all’istruzione, all’economia, alle comunicazioni. Ma se l’operazione, complice il golpe-farsa della scorsa estate, gli è di fatto riuscita in patria, l’attitudine di Erdogan è costata alla Turchia un discredito internazionale gravissimo.
Fatto sta che, discreditata o no, l’Europa non può prescindere dalla Turchia di Erdogan. La sua collocazione geopolitica parla da sé: con un vicino così si tratta o si viene alle mani. Esclusa la seconda possibilità, anche la prima non è senza conseguenze dolorose o imbarazzanti. Ad esempio quella di sottoscrivere (e pagare) un accordo per fermare l’afflusso di migranti dal Medio Oriente con uno stato di cui si dichiara la deriva autoritaria e si denunciano le ripetute violazioni dei diritti umani. Esponendosi inoltre al suo ricatto di utilizzare la massa di profughi come una bomba a tempo.
Non solo. Poiché è caratteristica del nostro tempo quella di avere la politica estera in casa, l’Europa – i Paesi di forte immigrazione soprattutto – hanno importanti parti di Turchia nelle proprie città, nelle proprie istituzioni. Il che rende più difficile separare ciò che avviene sul e a est del Bosforo, da quanto si svolge a Zurigo, Amburgo, Berlino, e raddoppia la problematicità della questione: da un lato le relazioni con Ankara, dall’altro il riverberarsi “qui” delle tensioni intestine turche, si pensi ai curdi e alla dissidenza democratica perseguitata dal regime. In questo senso, le perplessità, le “ragioni di sicurezza” evocate a giustificazione della ritrosia con cui si è accolto l’autoinvito di Cavusoglu sono formalmente discutibili, ma non incomprensibili.
Si dirà: se solo non si fossero chiuse le porte dell’Ue alla Turchia… Ed è vero, l’Europa non può chiamarsi fuori. A lungo si è sostenuto che proprio la prospettiva di ingresso nell’Unione è stata la leva per la democratizzazione degli Stati che vi aspiravano. Con la Turchia si è scelta una strada diversa, e ora il risultato è questo. Ma anche tale argomento è ormai logoro, come spiega il caso ungherese di deriva autoritaria cominciato una volta nell’Unione. Ok, siamo finiti fuori tema, ma sarà bene pensarci.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔