Commento

Il pendolo della storia

24 marzo 2017
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Il Canton Ticino è da tempo laboratorio politico svizzero dove s’intrecciano tradizione e innovazione. Qui è nata l’antipolitica in tempi non sospetti (inizio anni Novanta del secolo scorso), qui il vento della globalizzazione ha generato più paura che altrove e con grande anticipo (dicembre 1992), con la votazione popolare sullo Spazio economico europeo e sempre a Sud delle Alpi i partiti storici sono andati in corto circuito mediatico – anche per la sovraesposizione costante – quando nel resto della Confederazione vi è da sempre più distacco e anche un certo disincanto. Orbene oggi che il Ticino ha fatto scuola, perché i tempi delle tecnologie e della comunicazione sono ormai veloci e parossistici per tutti, è interessante leggere i nuovi segnali che qua e là s’intravedono a Sud delle Alpi. Forse ancora in anticipo sul resto del Paese. Flebili, quasi impalpabili, ma pur esistenti.
Stiamo parlando di quell’esigenza non così palesemente espressa, perché non ha ancora un “nome” adeguato ai tempi. In altri momenti, in altre epoche pur recenti si sarebbe definita come “egemonia culturale”. Non si tratta di scomodare illustri intellettuali del passato, Gramsci su tutti, per comprendere di cosa stiamo parlando. Gli è che dopo l’ubriacatura antipolitica, dove l’attacco al potere rappresentativo ma anche esclusivo ha raggiunto l’apice della protesta per interposta persona (nel nostro caso il fondatore della Lega dei Ticinesi), non è rimasto quasi niente se non una forte sensazione di disagio, come quando, superato il lutto, si prende coscienza della propria fragilità. Per buttarla in psicologia, “ucciso” il padre siamo rimasti orfani con largo anticipo rispetto ai tempi della maturità. E così abbiamo bisogno di una nuova narrazione dove riconoscerci; un’altra “egemonia”, appunto, che ci indirizzi verso rinnovate e ottimistiche prospettive.
Tornando alla politica, oggi in Ticino serve una svolta storica, come capita ogni tanto – dopo venti o trent’anni – e come capitò, tanto per fare un esempio, nel secondo dopoguerra con l’alleanza radicale-socialista; un patto che ribaltò il Cantone e avviò una nuova epoca. Comunque la si pensi cambiare marcia ogni tanto fa solo bene, ma per farlo serve in primo luogo un esteso consenso culturale prima ancora che politico. Per avviare un nuovo processo – che questa primavera 2017 in qualche modo ne contiene il profumo – servono nuovi soggetti politici capaci di avviare un’altra narrazione dove la tecnica – quella che oggi chiamiamo modernità tecnologica – si coniughi con la filosofia e la politica. Un nuovo soggetto che sappia fare sintesi fra neopositivismo ed etica sociale; fra nuove ricchezze e una più ampia ridistribuzione del benessere. Ma attenzione, quello che stiamo descrivendo non è solo un processo elettorale capace di condurre alla vittoria, ogni quattro anni, ma piuttosto un fermento sociale che si forma all’improvviso e che con altrettanta “misteriosa” rapidità s’ingrossa sino a diventare dominante. Come è capitato appunto col 1992 quando i ticinesi decisero di voltare pagina e inaugurare una politica antieuropea votando no al See. Fu l’inizio di una nuova era a quel tempo colto da pochi.
Oggi, venticinque anni dopo, il pendolo della storia sta tornando a cambiare marcia. Per quanto al momento si avverta solo la voglia, la necessità diffusa, di un nuovo “narratore”. Di una nuova élite nella quale tornare a credere, perché più che la necessità – ancora forse poco chiara – prevale la paura di uno sconfinato spaesamento individuale e sociale.

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