Racconto della settimana

Il misterioso signor Wallace

11 novembre 2015
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Voltandomi vidi avvicinarsi un uomo alto e magro, sulla settantina, volto asciutto, baffetti e pizzo curati, sguardo insistente sotto due folte sopracciglia disuguali, uno grave e l’altro circonflesso. Indossava una vestaglia da camera di velluto viola scuro. Mi ricordava qualcuno, forse un attore.

–     Lei è il giornalista del Post, vero? – mi domandò con una voce cavernosa, tendendo la mano scheletrica e mantenendo la schiena diritta.

–     Johnny Brooks, piacere – mi presentai alzandomi in piedi e accennando un leggero inchino.

–     Il direttore Preston mi ha parlato molto bene di lei. Siamo vecchi amici. Ha avuto difficoltà a trovare la casa?

–     A dire il vero, un po’ sì. E non c’era nessuno a cui poter chiedere. Ma poi ce l’ho fatta – dissi con un sorriso soddisfatto, cercando di dissimulare l’agitazione.

–     Infatti non passa molta gente da queste parti – disse Wallace. –   Gradisce un bicchierino? Ho dell’ottimo amontillado.

Accettai di buon grado, sperando che l’alcol mi rendesse meno nervoso. Wallace ribaltò la calatoia di uno scrittoio in mogano e apparve un barilotto. Ne fece spillare il liquido riempiendo due bicchieri di vetro intarsiato. Già dopo il primo sorso, piuttosto abbondante, mi sentivo più rilassato.

–     Stava osservando il quadro, signor Brooks?

–     Sì, infatti. Mi ricorda qualche personaggio dei romanzi di suo nonno.

–     Già. L'ho commissionato qualche anno fa a un pittore andaluso – disse alzando lo sguardo alla tela, con un leggero brillio negli occhi e sporgendo appena il labbro inferiore.

Ecco chi mi ricordava: quell’attore americano dalla voce possente, di cui ora mi sfuggiva il nome, che si sentiva recitare in un video musicale di morti viventi, con la terribile risata finale. Ripreso il contegno grave, disse:

– Per l'intervista possiamo spostarci nel mio studio. Venga, la precedo.

Usciti dal salotto, Wallace tirò fuori dalla tasca della vestaglia un grande mazzo di chiavi come quelli dei carcerieri, con mille chiavi infilate in un anello metallico. Ne scelse una e si diresse verso la porta centrale dell'atrio. Appena mi ci trovai davanti, sentii un brivido lungo la schiena: era la stanza numero 13. Non che fossi superstizioso, ma ricordai un giallo del nonno di Wallace. Entrammo. Al centro dello studio c’era una grande scrivania e tutto intorno scaffali pieni di libri. Wallace prese posto sulla sua grossa poltrona in pelle e io mi accomodai di fronte, su una sedia imbottita. Affrontammo subito l’argomento. Fra pochi giorni Wallace avrebbe inaugurato un laboratorio per giovani scrittori a corto di mezzi, con alloggi e locali di studio. Il mecenate non aveva però fornito altri dettagli. Ed io ero lì per carpirli. Ciò che mi rivelò mi sconvolse.

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