Racconto della settimana

Il misterioso signor Wallace

10 novembre 2015
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Suonai il campanello alle due in punto. Il direttore Preston era stato chiaro: E. A. Wallace era uno dei primi finanziatori del London Post, dovevo comportarmi di conseguenza. Questo significava, prima di tutto, una puntualità assoluta. Erano le due ed ero qui, a Crawley. Bene. Un po’ nervoso, ma c’ero. Molto nervoso. Era la mia prima vera intervista. Il direttore era consapevole del rischio, ma mi aveva dato fiducia. Il servizio sul furto al Tate Modern mi era riuscito bene, è vero, e anche lì avevo dovuto fare parecchie domande al personale del museo. Ma questa sarebbe stata un’intervista vera. Il direttore mi aveva scelto anche perché sapeva che avevo letto buona parte dei romanzi del nonno di Wallace. Che Preston fosse un vero estimatore del vecchio Wallace l’avevo capito subito la prima volta che mi ero trovato a colloquio nel suo ufficio, in Regent Street, dove in una bacheca ben sigillata si trovava l’edizione principe dei “Quattro giusti”. Il nipote, però, non lo conoscevo. Già il solo pensiero di porre domande a un uomo facoltoso e riservato – come tale mi era stato descritto dal direttore – mi dava un senso di ansia. Ora poi che mi trovavo davanti a questo che sembrava un vero e proprio castello, con quattro torri che svettavano imponenti nel cielo plumbeo, un alto cancello in ferro battuto all'entrata della proprietà, dove avevo lasciato l’automobile, e un lungo viale alberato che tagliava un curatissimo prato inglese, stavo seriamente considerando di darmela a gambe.

Eppure dovevo rimanere, l’occasione era unica. L’intervista poteva valermi la nomina a inviato speciale del Post. Intanto, però, nessuno apriva. Mentre stavo per premere di nuovo il bottone del campanello, si sentì lo scatto della serratura e il portone si aprì lentamente. Una domestica anziana e minuta con in mano un candelabro acceso – cosa che mi stupì alquanto visto che era pieno giorno – mi fece strada lungo un vasto atrio fiancheggiato da diverse porte chiuse, ciascuna con un numero bene in vista. Facendomi accomodare sul divano di un enorme salotto mi disse che avrebbe avvertito il padrone di casa. Le pareti di lato e quella dietro di me erano piene di libri ben allineati, mentre sulla quarta, di fronte, campeggiava un grande quadro. Raffigurava una bizzarra figura esile, mascherata e con indosso una tuta verde sgargiante, che dall'alto di un muro di cinta puntava un arco su un monaco avvolto da una lunga tonaca nera, il cappuccio alzato e le mani infilate nelle larghe maniche. Dalle altissime finestre strette una luce soffusa illuminava appena il dipinto, dandogli un’aura inquietante. Ero talmente assorto che non sentii i passi striscianti che provenivano dall’atrio.

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