L'analisi

I molti enigmi della 'nuova era'

21 gennaio 2017
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Mette finalmente piede nello studio ovale della Casa Bianca il “commander-in-tweet”, primo scherzoso titolo appioppato a Donald Trump a causa degli implacabili e categorici “cinguettii”, le quaranta parole al massimo con cui il neopresidente americano ha predicato il suo verbo politico nei due mesi di confusa e tesa fase della transizione.
Comincia dunque l’era Trump, accompagnata da abbondanti e inquietanti interrogativi. Per esempio, e soprattutto, su come riuscirà a conciliare le vistose contraddizioni fra programmi e nomine di ministri e consiglieri: il ribadito attacco all’establishment e la scelta di uomini della grande finanza che ne sono stati l’espressione più sfacciata; una squadra affollata di super-ricchi (in totale rappresentano 11 miliardi di redditi) nonché beneficiari di imposte vergognosamente vantaggiose e che dovrebbero ora ristabilire gli interessi delle classi media e operaia; esponenti della mondializzazione sregolata e anti-sociale chiamati a convertirsi all’autarchia economica; la promessa di una nuova partnership con Putin mentre il nuovo ministro della Difesa, generale James Mattis, dichiara invece che la Russia rimane “la principale minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti”; il presidente super-amico di Israele (dove invia un ambasciatore che finanzia le colonie nei territori palestinesi occupati) e la nomina a consigliere per la sicurezza di uno Stephen Bannon che per il suo proclamato razzismo inquieta non solo gli afroamericani e la comunità musulmana, ma che suscita la protesta anche di quella ebraica. E la lista sarebbe lunga.
“L’America protetta da Dio” (l’altissimo è stato più volte citato e invocato ieri nel discorso di inaugurazione) è il recupero plateale di quel concetto di “nuova Gerusalemme” che ha nutrito le convinzioni, le aspirazioni, e anche i timori di quella parte di America bianca che teme il sorpasso demografico delle minoranze già previsto per il 2050. C’è un’America manifestamente divisa attorno al suo 45º presidente (eletto nonostante gli oltre due milioni di voti in più raccolti dalla sua rivale Clinton); e c’è una comunità internazionale che si interroga, inquieta.
Prima di tutto la fragile Europa comunitaria, che, fatto senza precedenti da parte di una presidenza americana al debutto, ha dovuto registrare critiche che sono suonate come un aperto attacco. Una Unione europea al massimo della sua debolezza che subisce la più aperta e pubblica sfida da parte di un capo della Casa Bianca ostentatamente contrario alla sua unità, favorevole alla sua implosione, elogiativo solo nei confronti delle nazioni e delle forze politiche del continente che l’hanno o vorrebbero abbandonarla, apertamente critico nei confronti non solo della politica e della leadership di Angela Merkel (che replica ricordando “il diritto degli europei a scegliere il proprio destino”) ma complessivamente di una Germania dominatrice ed europeista unicamente per difendere i propri interessi nazionali.
C’è una parte di vero nelle critiche a questa Europa che si è fatta finanziare dagli Stati Uniti la propria difesa, rinunciando a una propria politica. Occorrerà del resto vedere se la complessità del mondo, e le molte reticenze degli stessi parlamentari repubblicani, non obbligheranno “the Donald” a un maggior pragmatismo. Ma qui, e per ora, c’è obiettivamente un ex e potente alleato che vorrebbe diventare il grimaldello per favorire il ritorno dell’Europa alle sue antiche e pericolose fratture nazionali.

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