L'analisi

I due fronti del presidente

15 maggio 2017
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Il commento più lirico è stato di un quotidiano di Pechino: “La Francia ha fatto una scelta cruciale per la civiltà”. Insomma, il mondo alla rovescia, con i comunisti cinesi che esaltano l’arrivo all’Eliseo dell’uomo considerato invece un puro prodotto delle élite da parte delle forze antisistema vistosamente sostenute (non solo a parole, ma anche con supporto economico e hackeraggi vari) dagli Stati Uniti di Trump e dalla Russia di Putin.
Mai un voto europeo era stato caricato di un peso e di un significato simili: “La lotta fra mondializzazione e nazionalismo”, ha scritto il ‘New York Times’. Un’attesa esasperata provoca anche soddisfazioni esagerate, e premature speranze. Rimane in molti il dubbio, se Emmanuel Macron abbia vinto per il suo programma o per l’impresentabilità di Marine le Pen, per le sue coraggiose idee pro-europee o per la rozza impreparazione della rivale; per un’adesione convinta o per mancanza di alternative.

Comunque, il giustificato sollievo provato per la tenuta democratica di un Paese simbolo come la Francia deve immediatamente confrontarsi con la dura realtà che attende l’ottavo e più giovane presidente della Quinta Repubblica, entrato ieri nel Palazzo del “monarca repubblicano”. Un mandato di cinque anni sembra un lampo di fronte all’enormità del lavoro che lo attende: riconciliare una nazione pericolosamente segnata da fratture profondissime, e addirittura rifondare un’Europa che non può perdere la sua ultima occasione.

Sul piano interno, già nelle prossime settimane bisognerà vedere se, secondo tradizione e logica dell’architettura istituzionale ereditata dal generale de Gaulle, il trionfo del 7 maggio garantirà a Macron una chiara maggioranza parlamentare; oppure se alle elezioni di metà giugno i due blocchi storici (post-gollisti e sinistra) esclusi per la prima volta dalla finale dell’Eliseo avranno la possibilità di una qualche rivalsa, in grado di piegare il neopresidente all’obbligo di una coabitazione carica di incognite e inciampi. Non basta promettere di adottare “il meglio degli uni e degli altri”, come in sostanza fatto da Macron, per avere il sicuro sostegno di entrambe le formazioni che si giocano letteralmente la propria sopravvivenza politica.

Ma forse è soprattutto fuori dai confini nazionali che il presidente gioca la partita. Il cui esito dipenderà dalla sua capacità e dalla sua possibilità di cambiare i parametri europei, spezzare i vincoli dall’austerità, passare a una politica espansiva, individuare i meccanismi capaci di tutelare gli esclusi della mondializzazione, restituire alla politica il timone che anche le cosiddette “sinistre di governo” hanno abbandonato nelle mani di una finanza spropositatamente famelica.

Non solo Macron è dunque chiamato a prendere definitivamente le distanze dall’élite finanziaria che lo ha formato; la sua narrazione riformista (quella di un progressismo social-liberale che finora ha difficilmente superato la prova dei fatti) si infrangerebbe comunque sugli scogli di un’Europa che rimanesse insensibile alla vera sostanza del messaggio francese: e cioè che il peggior populismo ha subito una severa sconfitta, ma non la definitiva débâcle.

E un ritrovato motore franco-tedesco dell’Europa avrebbe un senso virtuoso e salvifico soltanto se la nuova direzione sarà quella di un’Europa delle tutele sociali. E di tempo ce n’è poco.

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