Inchieste

I custodi della penitenza  

(Pablo Gianinazzi)
14 maggio 2015
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«Cambio biancheria!». Il tono dell’agente di custodia è secco, misurato, una via di mezzo fra un ordine e un avviso. Vengono spalancate due celle “doppiate” con i letti a castello. All’interno si intravedono i detenuti, in piedi, che rassettano. La banalità di una chiamata di routine assume qui, nel carcere giudiziario della Farera, un valore diverso, dilatato. Per il prigioniero significa aria, contatto, scambio di sguardi. Significa un orizzonte diverso rispetto a quello di una stanza di 12 metri quadrati (inclusi gabinetto e doccia aperti) che con il suo spicchio di “panorama” su un parcheggio è l’unico orizzonte possibile per 23 ore su 24, ogni singolo giorno trascorso in un regime di carcerazione preventiva dove la permanenza media si assesta sui 40 giorni.

In questa particolare situazione di servizio appare chiaro il distacco formale fra carcerati e carcerieri. Fra i limiti imposti dai primi e le presumibili aspirazioni dei secondi sembra esserci un cuscinetto. Segna il limite da non superare. L’azione di cambio biancheria, che si svolge rapida e metodica, pare indicare che si tratti di un confine talmente radicato da essere diventato “biologico”, parte stessa dell’ambiente.

Valentino Luccini è uno dei tre capi sorveglianti della Farera. I suoi 24 anni di attività – prima nel carcere penale della Stampa, poi nel giudiziario – lo legittimano a comandare, unitamente a due colleghi parigrado, la trentina di guardie in servizio nel settore della carcerazione preventiva e a tracciare del lavoro quotidiano un quadro accurato che appare letteralmente passato al setaccio delle esperienze.

«In Farera dobbiamo gestire il singolo individuo, che ha vissuto, o sta vivendo, una situazione oggettivamente traumatica, con sfaccettature pubbliche e private, familiari, intime. È vero che fra i detenuti in regime duro ci sono i “professionisti” del crimine, più scafati, rodati, meno inclini ai momenti di vero scoramento. Ma ci sono anche le persone “normali”, come me e lei, la cui sofferenza colpisce, ma è anche il sintomo dell’inizio di un cambiamento che è necessario, anzi imprescindibile per il futuro di chi finisce qui dentro».

Luccini si riferisce ad esempio agli autori di reati finanziari, a padri di famiglia che possono aver commesso il loro sbaglio d’impulso, per rabbia o rancore, o addirittura per inavvertenza, e che si ritrovano catapultati in un mondo parallelo dove manca il bene più prezioso. «Lo sappiamo. Si tratta di persone che osservano la loro esistenza sfaldarsi e che reagiscono con un grande disagio cui può aggiungersi quello dei parenti, propri e della vittima – dice Luccini –. Sono dinamiche che gli agenti di custodia hanno imparato a conoscere e alle quali sono chiamati a rispondere in linea generale con rapporti cordiali, persino “amichevoli”, lo mettiamo fra virgolette, ma che non possono mai derogare dal regolamento interno».

L’equilibrio costante fra vicinanza e presa di distanza, fra condivisione dei sentimenti e separazione dei ruoli, è fondamentale per far prevalere la figura dell’agente di custodia sulla persona che c’è dietro. «La regola d’oro è mai parlare con i detenuti della propria vita o di quella dei colleghi. Esporsi in qualsiasi modo, per quanto fatto in buona fede e con la massima fiducia, può rivelarsi una pratica pericolosa a causa del rischio di diventare corruttibili o ricattabili».

‘L’aspetto più delicato è gestire le diverse etnie’

E che possa succedere in carcere è ovviamente del tutto sconsigliato. Sia in Farera, sia alla Stampa, il carcere penale. Per il detenuto, che di regola vi giunge per l’espiazione della pena dopo il giro di boa processuale (salvo i casi di espiazione anticipata), la prospettiva è più chiara e decisamente più ampio è il margine di manovra. A partire dalle possibilità di socializzazione, che prima si limitavano alla famosa ora d’aria in uno dei tre angusti cortili di passeggio del carcere giudiziario, più l’incontro mensile consentito con esterni, i confronti con gli avvocati e gli interrogatori di polizia e del procuratore pubblico titolare dell’inchiesta. «Alla Stampa l’obiettivo è la riabilitazione del detenuto in vista del suo reinserimento nella società, quindi la situazione generale è un’altra», spiega Loris Rigolli, 51 anni, 30 di esperienza nel settore, uno dei tre capi sorveglianti del carcere penale. Base diversa per problemi differenti, ma non meno pressanti. «Qui l’aspetto più delicato è senza alcun dubbio la gestione delle diverse etnie presenti e delle dinamiche che si creano all’interno dei vari gruppi di provenienza».

È “il” problema, se consideriamo che oltre l’80% della popolazione carceraria è costituito da stranieri provenienti da 35 Paesi diversi, e che ogni gruppo presenta caratteristiche dominanti che occorre conoscere e saper trattare in modo adeguato. Un’altra costante è la richiesta di appoggio, sostegno, conforto. «Fa parte del lavoro, ma molto spesso si cade nell’eccesso – evidenzia Rigolli –. Se penso agli attuali 127 detenuti penso a 127 problemi diversi e a una moltitudine di domande rivolte, e spesso continuamente ripetute, agli agenti di custodia. Penso ai contrasti, agli accordi e alla necessità di compromessi che permettano una convivenza il meno problematica possibile. Il tutto, in un regime che richiede comunque – ed è dettato da – una continua e scrupolosa osservanza delle regole. Ai detenuti, ma anche a chi li deve sorvegliare».

Anche Rigolli sottolinea la necessità assoluta di separare i ruoli, di «lasciare idealmente in un sacchetto, all’uscita da casa, i problemi personali e di fare lo stesso in carcere, con quelli di lavoro, quando finisce il turno». Ma è difficile, ammette il capo sorvegliante, e non è un caso che la professione sia considerata fra quelle a più alto rischio di “burn out”. «È necessario essere sempre al 100% perché siamo nell’impossibilità di cedere a problematiche esterne che condizionino il nostro modo di essere e di operare – nota Luccini –. Il motivo è semplice: qui se sbagli puoi farti veramente male, ma puoi anche farne, ad esempio azzardando ipotesi sulla condanna che sarà emessa a carico di un detenuto. Bisogna “esserci” sempre e non è facile». Per questo non sono infrequenti i “congedi” temporanei interni con destinazione ad altri incarichi più sostenibili: è una valvola di sfogo fondamentale, la cui esigenza ha una frequenza giornaliera.

‘Professione affascinante ma estremamente difficile’

Attualmente, anche grazie ai 9 nuovi incaricati che frequenteranno la scuola per agenti di custodia, operano in totale 113 agenti, che devono garantire la sicurezza 24 ore al giorno, per 365 giorni all’anno, in Farera, Stampa, Stampino (carcere aperto) e Centrale operativa. Per il direttore Stefano Laffranchini «ne mancano alcuni, anche considerando che la professione è affascinante ma estremamente difficile: esce la componente umana, ma la priorità rimane il rispetto del regolamento carcerario». Centotredici agenti significa un agente ogni 2 detenuti e la struttura carceraria, costruita nel ’68, «solo in parte permette di sopperire con misure tecniche all’assenza di uomini. Il rapporto ottimale sarebbe un agente ogni 1,7 detenuti», dice il direttore, che auspica la crescita del contingente fino a 119 agenti.

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