L'analisi

Chi ha vinto in Siria

12 dicembre 2017
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Quanta fretta. Forse ne ha avuta troppa, Vladimir Putin, nell’annunciare la vittoria definitiva sull’Isis, e il conseguente inizio del ritiro delle forze russe dalla Siria. La stessa precipitazione con cui il governo di Baghdad ha annunciato di avere cacciato il “Califfo” dall’Iraq (dove l’Isis era penetrato come un coltello nel burro nel 2014, grazie alla complice cedevolezza dello stesso esercito iracheno). Sgominato l’Isis, in altre parole, non si può non attendersi la comparsa, seppur differita nel tempo, di un’altra sigla con tuttavia la stessa capacità di attrazione e di destabilizzazione, non essendo mutate le condizioni di cui lo “Stato Islamico” è stato il prodotto.

Del resto, una spia che Mosca e Bagh­dad ne siano coscienti, sono le dichiarazioni fatte seguire ai due annunci da Putin (un trumpiano “se i terroristi rialzeranno la testa, li colpiremo con raid mai visti”), e dallo stesso governo iracheno (“abbiamo ancora bisogno di consiglieri internazionali”).

Ma più in generale, il presidente russo sa bene che le “vittorie” delle potenze straniere in Medio Oriente non assicurano quasi mai egemonia duratura a chi le vanta, né “tranquillità” ai suoi protetti; tanto variabili (e tragici) sono gli scenari che generano e che vi fanno seguito. Se è uno che si fa illusioni, Putin le nasconde bene.

Dunque la visita non preannunciata di ieri in Siria e l’ordine di ritiro impartito alle proprie truppe inviatevi a difendere il regime di Bashar al Assad paiono corrispondere a contingenze più immediate, seguendo di pochi giorni l’annuncio della candidatura alle prossime elezioni presidenziali russe, e la scellerata dichiarazione di Donald Trump a favore di Gerusalemme capitale di Israele.

Va da sé che per un candidato presidente, tanto più se in carica, una guerra “vinta” è un argomento formidabile da spendere in campagna elettorale. Ma francamente non è di questo che aveva necessità un Putin che annunciando la candidatura indicava già chi sarebbe stato il proprio successore… Piuttosto, bisogna forse osservare che se c’era un momento ideale per mettersi a capo di un asse regionale alternativo al patto Trump-Netanyahu, non poteva che essere questo. In tal senso, un Putin già abile nel condurre a sé governi non amici ma con nemici comuni, si è ora coperto le spalle a livello di opinioni pubbliche arabe per le quali Gerusalemme è insieme un totem e un tabù, un valore comunque non negoziabile. La sola causa capace di cementare alleanze in una regione altrimenti divisa su quasi tutto è quella della “città santa”, e colui che si dichiara, se non nemico, avversario di chi la disputa all’islam guadagna un credito a lunghissima scadenza.

Non che Putin vi sia arrivato nel corso di una notte. Ben prima della mossa di Trump, la politica assertiva della Russia aveva rideterminato sviluppi che sembravano ormai compiuti. Salvato Assad dalla disgrazia definitiva e accreditatosi come implacabile avversario sul campo delle milizie del califfato (e così guadagnando un certo ascolto anche nell’Europa che aveva buone ragioni di temerle), Putin ha anche ricondotto a più miti consigli l’intemperante Erdogan e si è proposto a Teheran come interlocutore affidabile, ben più degli Usa che con Trump minacciano di fare carta straccia dell’accordo nucleare.

Un successo, almeno apparente, dietro l’altro. L’ambizione, scontata, di farli fruttare a proprio vantaggio, se fraintesa con una sorta di “diritto storico”, sembra la sola che ora potrebbe tradire Putin.

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