L'analisi

Caos e venti di guerra (fredda?)

17 gennaio 2017
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Altro che ‘smooth transition’, la tradizionale transizione morbida. A Washington acredine e rappresaglie hanno raggiunto l’acme. A Pechino il governativo ‘Global Times’ ventila addirittura la prospettiva di una guerra con gli Usa nel Mar del Sud della Cina, mentre alla frontiera russo-polacca stanno convergendo unità Nato. A una settimana dall’insediamento del 45esimo presidente, a regnare è lo scompiglio. Il presidente uscente sta moltiplicando i ‘last-minute regolatory acts’, misure d’emergenza per impedire che vengano smantellate le conquiste sociali e ambientali: ne ha già firmati 571 e non intende fermarsi. Quanto al Congresso, in una corsa contro il tempo, attrezza il patibolo della più importante riforma dell’era Obama, quella sanitaria, il tanto odiato ‘affordable care act’. E Trump, a colpi di tweet e senza soluzione di continuità, accumula le staffilate contro il suo predecessore, i suoi avversari, leader stranieri come Angela Merkel, la stampa (con una virulenza tale da suscitare l’inattesa critica della sua alleata FoxTV) e quei servizi segreti rei di aver smascherato il ruolo svolto dietro le quinte dai russi. Sul tavolo, oltre tutto, quel rapporto controverso sul presunto dossier (‘kompromat’ specialità russa in salsa Kgb ora Fsb) grazie al quale Putin ricatterebbe il magnate assumendo le redini della politica estera Usa. Spazzatura o verità? Impossibile saperlo, anche se un’inchiesta del ‘Washing-ton Post’ smentisce Trump e rivela suoi legami regolari con Mosca. Come se non bastasse James Comey, il capo dell’Fbi, è sotto inchiesta per la sua singolare decisione di pubblicare in piena dirittura d’arrivo della campagna elettorale le e-mail private di Hillary Clinton. Anche la formazione dell’esecutivo più elitario della storia (i 17 top del gabinetto hanno una ricchezza equivalente a quella di oltre 50 milioni di americani) si presenta all’insegna della cacofonia e della confusione: il futuro capo del Pentagono James Mattis punta il dito contro Putin che mirerebbe a seminare divisione all’interno della Nato: posizione che contrasta con quella filorussa di Trump e di Rex Tillerson, ministro degli Esteri il quale, preannunciando un rafforzamento della flotta al largo della Cina, ha provocato un sisma diplomatico di forte magnitudo. Negli ultimi anni (non intervenendo in Siria e disimpegnandosi da Iraq e Afghanistan) l’America aveva di fatto seguito una linea diplomatica cauta. Un’escalation della tensione improvvisa era dunque inattesa. Obama può vantare un bilancio invidiabile: disoccupazione dimezzata, protezione dell’ambiente rafforzata, la fine della tortura, intese con Iran e Cuba. Anche la vittoria di Trump è da registrare, in negativo però, a bilancio: perché a tifare per il Tycoon non ci sono state solo le ricche cotonate texane o gli ultras di Dio della Bible Belt, ma pure la working class bianca che si è sentita trascurata e tradita. Oggi, lacerata, la ‘nazione indispensabile’ è sprofondata nel caos, e tutti rischiano di pagarne le conseguenze.

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