Commento

Austria infelix

17 ottobre 2017
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Due terzi dell’Austria hanno votato nettamente a destra. L’ennesima sbandata dal consenso centrista che ha dominato a fasi alterne tutto il dopoguerra. Col rischio ora di un governo di “doppia destra”, con il giovane iperconservatore Sebastian Kurz affiancato dal navigato xenofobo Heinz-Christian Strache, erede del partito che fu di Jörg Haider.
Segno che la storia dell’Austria post-asburgica continua a ripresentarsi – se non come tragedia, quantomeno come farsa – in una serie di rigurgiti nazionalisti vecchi quanto Joseph Roth. Come nella Cripta dei cappuccini, quando un gruppo di fascisti entra nella bettola dove si trova il protagonista e proclama la venuta di un “governo del popolo.” Al che il povero Von Trotta commenta confuso, fra sé e sé: “Io appartengo ancora oggi a un mondo completamente tramontato. Un mondo dove un popolo doveva lasciarsi governare, e non poteva governare da sé, a meno che non volesse smetterla di essere popolo.”

È cambiato tanto da allora, figuriamoci. I conservatori di Kurz e Strache sono troppo ‘fighetti’ per paragonarli agli squadristi di Engelbert Dollfuß. Ma ci sono elementi che suggeriscono una certa continuità. Continuità nell’affermarsi di leader che hanno fatto del pugno duro sull’immigrazione, della chiusura dei confini e delle menti, del mito del ‘popolo’ (qualsiasi cosa esso sia) un elemento di folgorante successo politico. Continuità nel dover assistere al fallimento di un’idea comunitaria.

Certo, l’impero del ‘vecchio uomo’ Francesco Giuseppe era ben diverso dall’esperimento europeo. Fu forse solo un calcio d’angolo abborracciato per salvarsi dalla Storia. Sia come sia, il tentativo era già allora quello di salvare il salvabile dalle bordate degli identitarismi nazionalisti. Gli stessi identitarismi che quel disegno lo avrebbero presto accoppato, a Sarajevo (toponimo che nella storia europea sarebbe poi ritornato, e tutt’altro che come farsa). Lontani anche i tempi di Ottone d’Asburgo-Lorena, memorabile parlamentare Ue. Al quale chiesero, in occasione della partita di calcio Austria-Ungheria, per chi avrebbe tifato. Risposta sardonica: “Ma contro chi giocano?”.

Ora invece l’asse Austria-Ungheria è quello fra Kurz e Orbán, insomma: fra nazionalismi beceri. Basti pensare al monumento all’Ungheria minacciata dai ‘crucchi’ in piazza Szabadság, una roba tipo Las Vegas. O agli inquietanti adesivi della Grande Ungheria sui paraurti dei magiari rurali. E di sicuro Kurz e Strache ci andranno a nozze, con i loro omologhi polacchi e ungheresi. Aiutano a chiudere il discorso immigrazione in faccia ai disgraziati.

La reazione della destra arriva dalle periferie e dalle campagne. Anche questa una storia che si ripete. Fu proprio così che collassò l’esperimento democratico seguito alla fine dell’Impero: quando il resto della rimpicciolita Austria si stancò di quella Vienna divenuta troppo grande e istruita (allora si parlava di Wasserkopf, “idrocefalo”del Paese). Arrivarono dai monti Dollfuß e le sue brigate: preludio, in feroce allegretto pastorale, dell’Anschluß hitleriana.

Insomma, si torna sempre al giudizio un po’ sbronzo di Von Trotta: che cosa succede quando il populismo decide di imporre la sua idea unilaterale di ‘popolo’, e di governare di conseguenza? Se la principale preoccupazione è sbarrare la rotta dei migranti dai Balcani? O sul Brennero? Se le élite si prendono a pistolettate da sole – colpa anche del vuoto socialdemocratico - senza nemmeno il bisogno di un Gavrilo Princip?

Karl Kraus disse della Vienna di Klimt, Musil e Wittgenstein, che quello fu il banco di prova della distruzione del mondo. Speriamo solo che a forza di calci nelle palle di un’Europa più inclusiva e comune, non si finisca per doversi grattare le stesse rogne. Tanto più che di consolazioni come Roth e Klimt se ne vedono pochine, in giro.

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