Mondiali di hockey

Petrovicky: "Non bisogna mai sopravvalutarsi"

Lunga chiacchierata con l'ex Ambrì, presente ai Mondiali in qualità di assistente allenatore della Slovacchia.

10 maggio 2018
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Sul ghiaccio i suoi movimenti sono ancora ottimi. La tecnica di bastone è sempre quella e se non avesse la divisa da allenatore si potrebbe pensare a un giocatore. Robert Petrovicky, assistente coach della Slovacchia a questi Mondiali, è decisamente in forma. «Grazie», risponde in italiano lo slovacco visibilmente divertito dal complimento. «Quando scendi sul ghiaccio ogni giorno con i ragazzi ti mantieni bene, c’è azione ed essere in movimento ti permette di mantenere una condizione accettabile. Però ti garantisco che il mio corpo non è più ovviamente quello dei bei tempi».

Dopo una lunga magnifica carriera da giocatore, conclusasi nel 2016 e che lo ha visto arrivare sino in Nhl (210 partite, 27 reti, 38 assist) e vincere un Mondiale con la Slovacchia, l’ex numero 39 sta intraprendendo un percorso d’allenatore assai promettente. «Appena smesso con l'hockey giocato ho avuto l’opportunità di diventare assistente allenatore a Trencin e dopo una stagione ho ricevuto un'offerta dallo Slovan Bratislava (Khl) per svolgere la stessa mansione. È andato tutto veloce sinora, ma è difficile fare previsioni sul mio futuro. Mi piacerebbe un giorno diventare head coach, ma potrebbero volerci ancora parecchi anni prima di ricevere questa chance. Essere allenatore è molto più difficile che giocare, ma è divertente e appassionante. Quando sei in uno staff tecnico devi occuparti di molteplici attività. Devi comunicare con i tuoi colleghi e con i giocatori. Poi ci sono i video da analizzare, gli allenamenti da prepare e bisogna scegliere la formazione. Insomma è un lavoro variato e una grande scuola di vita».

Già perchè la filosofia di Petrovicky è chiara. «Ho fatto degli studi, ho letto libri. Essere su di un banco di scuola è utile, ma alla fine il vero sapere lo apprendi facendo pratica e vivendo il proprio lavoro quotidianamente con passione e voglia di imparare. È l'esperienza che ti forgia. Io ogni giorno continuo ad apprendere nuovo cose. Inoltre bisogna sempre restare onesti con se stessi e mai sopravvalutarsi. Ad esempio, quando il nostro general manager Satan mi ha telefonato e chiesto se volevo far parte dello staff tecnico, ho valutato attentamente prima di dire sì. Ero nervoso, Ho riflettuto a lungo: sono già pronto per questo compito? Posso davvero dare una mano alla causa? Non ho semplicemente accettato in pochi istanti senza pensarci».

La Slovacchia finora non se la sta cavando maluccio qui a Copenhagen. Il grande obiettivo sono ovviamente i Mondiali casalinghi dell’anno prossimo. «Sì, ma una musica molto lontana. Ora è fondamentale concentrarsi sul presente. Il nostro coach è canadese e porta la loro mentalità. Stiamo lavorando duramente al fine di progredire e permettere alla nuova generazione di svilupparsi e potersela giocare contro tutti gli avversari».

Petrovicky nel 2001 arrivò ad Ambrì. In Leventina disputò due stagioni e lasciò il segno. «Mi ricordo ogni momento di questa avventura. Arrivai all’aeroporto, pioveva a catinelle ed era freddissimo. I primi giorni ci fu un tempo da lupi e mi chiedevo come fosse possibile. Il quarto giorno infine spuntò il sole in quel di Bellinzona e lì capì in che magnifico posto fossi arrivato. E poi il calore dei tifosi, qualcosa di mai visto. Ero conscio di cosa si aspettava la gente da me in qualità di straniero, dovevo rendere, fare punti. Il primo anno in particolare fu splendido. Cada era un allenatore molto severo ed esigente. Ad Ambrì ho lasciato tanti amici, penso ad esempio a Pauli Jaks o Manuele Celio. Quest’ultimo ogni tanto mi capita d’incontrarlo a qualche manifestazione internazionale dedicata alle nazionali giovanili».

Il Ticino per il 44enne rappresenterà sempre un posto speciale. «Ci sono cose che non si dimenticano mai nella vita. Mio figlio nacque a Bellinzona nel 2002, quindi avrò in eterno un legame con la vostra terra». E il 16enne sta provando a seguire le orme del padre. A quanto pare ha del talento. Rayen milita nelle nazionali giovanili slovacche. «È stato frenato anni or sono da un infortunio che lo ha tenuto lontano dal ghiaccio per una stagione intera. Non so se riuscirà a diventare professionista. Dipende da lui. Si sta allenando duramente, dovrà continuare così e ascoltare i consigli dei suoi allenatori. Per fare di questo hobby un lavoro non basta avere talento, è imperativo usare la testa ed essere volonterosi. Che tipo di padre sono? Non lo spingo, gli lascio fare la sua esperienza. Parliamo però spesso assieme, sono sempre a sua disposizione e cerco di aiutarlo, ma non mi immischio praticamente mai nella sia vita da giovane hockeista. Lo faccio solo quando ci sono allenatori che lo paragonano a me. Questo non va bene e non è giusto nei confronti del ragazzo. In questi casi allora intervengo e parlo con i diretti interessati».

Robo ci ha dedicato tanti minuti, il tempo stringe. Vuole sapere come stanno alcuni amici in comune ticinesi, prima di congedarsi nuovamente in italiano. "Ci vediamo presto in Ticino". 

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