Apertura Alp Transit

Nel ventre del monte

(copyright Unia )
24 maggio 2016
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Migliaia di minatori si sono succeduti nel cantiere del secolo e c’è chi ha pagato con la vita

La vita di chi ha lavorato alla costruzione del tunnel, e i problemi che si sono presentati, nella testimonianza del sinda­calista Matteo Pronzini: dalla lotta per il rispetto dei livelli salariali alla tutela della salute, con gli operai esposti talvolta a temperature fino a 50 gradi. Per il movimento operaio la galleria è stata anche una occasione di crescita con conquiste sociali per tutta l’edilizia.

Non ci si può preparare a inaugurare un’opera come la nuova galleria di base del Gottardo senza parlare di una dimensione fondamentale legata a questo grandioso progetto, il lavoro. Sono stati migliaia i lavoratori che si sono succeduti nello scavo del tunnel destinato a diventare il più lungo al mondo. Il loro ruolo non va considerato secondario rispetto all’aspetto finanziario e a quello della progettazione con le sue componenti d’avanguardia. In questi anni sotto il Gottardo vi sono stati pure dei morti. Ma di volta in volta si sono manifestati altri problemi come quello della salute dei minatori, delle condizioni di alloggio, dei turni e, naturalmente, dei livelli remunerativi, questioni che hanno trovato soluzioni talvolta innovative non senza scontri e scioperi che, non a caso, sono stati più di uno. Il sindacalista di Unia Matteo Pronzini ha seguito sin dall’inizio queste problematiche, impegnandosi fianco a fianco con gli operai. A progetto concluso gli abbiamo domandato un bilancio di questa esperienza dal punto di vista sindacale. «Abbiamo cominciato a occuparci di questo cantiere molto in anticipo – spiega Pronzini – diciamo verso la metà degli anni Novanta, memori di quanto stava avvenendo al Loetschberg, ma anche a Sedrun dove era emerso il caso di lavoratori sudafricani pagati poco più di un migliaio di franchi. Ci siamo subito resi conto che all’interno di cantieri di questo tipo, nei quali si alternano centinaia di lavoratori, è necessaria una presenza sindacale quotidiana per evitare il manifestarsi di problemi di ‘dumping’, ma anche del rispetto della sicurezza. Soprattutto all’inizio abbiamo dovuto faticare nel far rispettare i livelli retributivi svizzeri per quei lavoratori che venivano inviati da imprese, sia svizzere che estere. Sin da subito il cantiere di AlpTransit ha rappresentato per noi una priorità a livello cantonale. Bisognava fare in modo che non vi fossero situazioni di mancato rispetto delle disposizioni contrattuali, ma non solo. AlpTransit costituiva una occasione per migliorare le condizioni di lavoro nel settore dell’edilizia anche fuori dalla galleria del Gottardo. In questo senso quello della galleria ferroviaria è diventato, nel corso del tempo, un cantiere strategico. La stessa cosa non è avvenuta a nord dove da parte sindacale non vi è stata la medesima lungimiranza. Questo ritardo sarebbe poi stato recuperato nel corso degli anni. Diciamo che questo cantiere per noi era diventato la Fiat dell’edilizia in ambito sindacale, un cantiere pilota insomma. Una prova di questo: tra il 1999 e il 2009 siamo riusciti a ottenere un aumento della remunerazione di 2’300 franchi, un miglioramento salariale che è stato esteso a tutti i lavoratori attivi in galleria e non solo sotto il Gottardo. Così, su uno stipendio base di 4’500 franchi, siamo riusciti a conquistare un aumento di quasi il 50 per cento».

Non è tuttavia solo una questione di salario per chi lavora in galleria. Accanto alla protezione dagli incidenti vi è pure il problema della tutela della salute alle prese con temperature molto elevate, dovendo poi convivere con l’umidità e la mancanza d’aria. «È difficile rendere l’idea a chi non è entrato sotto la montagna durante i lavori. Bisogna considerare, tanto per cominciare, che vi erano dei tratti di almeno 15 o 16 chilometri lungo le piste di accesso con temperature che, talvolta, arrivavano a 50 gradi. Oltre che con il calore i minatori si trovavano confrontati con tassi molto elevati di umidità. Uno dei problemi con i quali ci siamo trovati confrontati a questo proposito era la difficoltà a far funzionare gli impianti di aerazione. Dopo ogni forte temporale, ad esempio, il sistema di aerazione andava in tilt». Nell’Ottocento gli operai che scavarono quello che oggi sta per diventare il tunnel storico, furono colpiti da epidemie e malattie. Dell’anemia del minatore che provocò decine di morti ha scritto tra gli altri Raffaele Peduzzi, virus che contribuì a dar vita alla medicina del lavoro. È possibile un confronto tra il cantiere di allora e quello moderno? «Bisogna dire che la questione della sicurezza e della tutela della salute è sempre stata al centro delle attenzioni della direzione del cantiere. Vi erano dei responsabili chiamati a tenere costantemente la situazione sotto controllo. A parte il fatto, è vero, che vi sono stati, purtroppo, pure diversi morti, la media degli infortuni è sempre stata sotto quella del resto dell’edilizia. Quanto al manifestarsi di malattie penso sia presto per esprimersi. Questi operai entravano a bordo di trenini impiegando almeno 40 minuti per arrivare nel cuore del cantiere e altrettanti per uscirne. Durante questo tempo, come ho già evidenziato, erano esposti a temperature fino a 50 gradi. Una volta il capo-cantiere mi disse che vi era più traffico ferroviario a Bodio che alla stazione di Olten. Non so se rendo l’idea. Non è un caso se ci siamo occupati a fondo della questione dei turni anche tenuto conto della provenienza geografica dei lavoratori e non solo dello stress accumulato in galleria.

Dobbiamo considerare che solo sul versante ticinese erano presenti un migliaio di operai e sono stati almeno 2mila quelli che si sono alternati tra il 2000 e il 2010. Ciò aveva portato alla nascita di due villaggi. Ad esempio a Bodio vivevano 700 persone. A livello di alloggi siamo riusciti a ottenere che ogni lavoratore potesse avere una camera singola. Contrariamente da quanto si è portati a pensare la maggior parte di questi operai erano germanofoni, e vi è una ragione ben precisa per spiegare questo fenomeno sulla base delle diverse competenze acquisite nei loro Paesi d’origine, ad esempio nelle miniere di uranio i tedeschi. Ho conosciuto gente che aveva girato tutto il mondo e quindi con un livello culturale spesso elevato. È stata per me una esperienza eccezionale, a livello umano prima che sindacale. Erano in prevalenza tedeschi, molti dei quali provenienti dalla ex Ddr e dalla Ruhr, quelli addetti allo scavo con la Tbm – la famosa ‘Sissi’ per intenderci – mentre a lavorare con l’esplosivo erano soprattutto gli austriaci. Certo, c’erano pure italiani e portoghesi, ma in minoranza. Ciò ci ha posto una serie di problemi anche molto concreti. Come sindacato abbiamo dovuto organizzarci in modo da garantire contatti nella lingua materna della maggioranza degli operai, il tedesco. Anche la questione del vitto ha dovuto essere affrontata tenendo conto delle rispettive culture. Abbiamo poi dovuto trovare delle soluzioni che permettessero ai lavoratori di rientrare a casa presso le loro famiglie almeno una volta ogni due settimane con il viaggio pagato». Sono tuttavia state necessarie anche delle azioni di forza, compresi alcuni scioperi. «Sì – afferma Pronzini – gli scioperi ci sono stati, ad esempio per il riconoscimento delle spese di viaggio a favore di tedeschi e austriaci. Va peraltro detto che la componente sindacale è sempre stata presa in seria considerazione dal nostro partner contrattuale che ci ha coinvolti ogni volta che questo si rendeva necessario. Il cantiere AlpTransit ha poi giocato un ruolo fondamentale in tutte le vertenze dell’edilizia e soprattutto per il pensionamento anticipato a 60 anni. Per il sindacato è stata una esperienza molto importante che ci ha permesso di crescere perché non eravamo mai stati confrontati con un cantiere di queste dimensioni, esperienza che ci è tornata utile ad esempio nella battaglia in difesa delle Officine Ffs. Tra l’altro è proprio in questo contesto che abbiamo conosciuto Franz Steinegger, il quale avrebbe assunto il ruolo di mediatore con il Consiglio federale sulle Officine».

Una decina di morti, tre dei quali sul cantiere sud
«Una cosa importante che non può essere dimenticata è che su questo cantiere vi sono stati anche dei morti. Una decina in tutto. Tre delle vittime hanno perso la vita sul versante sud» ricorda Matteo Pronzini. «Uno degli operai morti – prosegue il sindacalista – era un giovane che avrebbe dovuto diventare padre un paio di mesi dopo. Vuol dire che suo figlio non lo ha mai conosciuto e sta crescendo senza papà. Sono cose da dire, al di là degli sforzi che sono stati fatti nel campo della sicurezza. Lo dobbiamo riconoscere. Ciò non ha impedito il verificarsi di incidenti gravi e questo rappresenta un aspetto umano che non può essere lasciato passare sotto silenzio alla vigilia dell’inaugurazione della nuova opera». Matteo Pronzini ricostruisce la sequenza di questi casi tragici. «Il primo a perdere la vita fu un lavoratore tedesco, Heiko Bujack, sul quale era caduto del materiale che lo aveva travolto. Il secondo grave incidente fu quello del gennaio 2005 nel quale due operai rimasero schiacciati da un treno destinato al trasporto del materiale sotto la galleria. Il convoglio era deragliato travolgendo le due vittime. Sono di questo tipo gli incidenti più ricorrenti durante lo scavo di gallerie. Fatti di questo genere erano già avvenuti durante la costruzione del tunnel autostradale. I morti erano entrambi giovani. Uno si chiamava Andrea Astorino ed era arrivato ad Alp­Transit tramite dei corsi di riqualifica. L’altro era un giovane di Giubiasco, Salvatore Di Benedetto, che aveva poco più di vent’anni e lavorava solo da una ventina di giorni nel tunnel. Dopo questa grave disgrazia siamo riusciti a ottenere a livello contrattuale di impiegare in galleria solo lavoratori con una esperienza nel settore dell’edilizia di almeno dodici mesi sui cantieri esterni. Si è trattato di un passo avanti molto importante nella tutela dell’incolumità dei lavoratori».

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