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Se la foto si svuota sui social

5 settembre 2015
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“Bisogna scuotere le coscienze”. “Bisogna denunciare”. “Bisogna che il mondo si indigni” davanti alla foto di Aylan, morto con la mamma e il fratello nello sciagurato tentativo di raggiungere Kos dalla Turchia, ma ributtato sulla spiaggia di Bodrum dalla forza del mare. Buona parte della stampa internazionale ha mostrato quell’immagine devastante, sui ‘social’ le condivisioni non si contano. Io lo guardo, Aylan. E mi tormenta una domanda: ma tu, bimbo, che non hai scelto nulla – né la guerra nel tuo Paese, né la fuga per la salvezza, né la morte in mare – tu avresti voluto che l’immagine del tuo corpo esanime diventasse il simbolo della tragedia dei migranti in fuga da anni dalle tue terre? Io non credo. La tutela della privacy di un minore nel nostro mestiere è un caposaldo. La responsabilità di fare da filtro tra quello che succede e il lettore, pure. Ne ho conferma quando discutendo di te con il responsabile della pagina di esteri del nostro giornale Erminio Ferrari (che ne ha viste tante, che ne ha scritte altrettante), gli s’incrina la voce. Parlando delle fotografie non arriviamo a conclusioni facili e immediate sul diritto o meno, sul rischio o meno, di strumentalizzarti. Ma vorrei tanto che questi interrogativi – per quanto aperti – fermassero il flusso di Facebook e compagnia, dove il tuo dramma viene consumato sulla bacheca di perfetti sconosciuti. Persone di cui, molto probabilmente, diffideresti. Perché così s’insegna ai bambini. Pensa che, sui ‘social’, gira anche il video in cui per alcuni interminabili secondi le onde ti lavano la faccia, e gli adulti scattano. Ti ho visto pure ritratto in un pessimo fotomontaggio, adagiato su un letto disegnato con le matite colorate. Il tuo dramma entra con violenza nelle nostre vite di assidui consumatori di ‘social network’, senza la benché minima contestualizzazione che i media (seri) garantiscono, e con una valanga di frasi fatte che – a parer mio – trovano solamente il tempo di qualche “mi piace”. Tanto in voga, dalle nostre parti. Tanto per marcare presenza. Tanto per dire: io non mi giro dall’altra parte. “E cosa farai, d’ora in poi?” mi viene da ribattere provocatoriamente. Perché, chiaramente, si guardano bene dal dirlo. Troviamolo, invece, il coraggio di dirlo: io mi giro dall’altra parte, Aylan. Perché il tuo dramma è troppo grande perché io possa dargli risposta. Perché non voglio che gli occhi si “abituino” a immagini tanto devastanti. Perché la mia compassione nasce dall’astratto, ma risulta comunque autentica. Il rischio invece è forte: viviamo in una società stracolma di input. Per questo, a mio parere, il paragone con immagini che hanno fatto la storia (penso ad esempio ai bambini vietnamiti che scappano dal napalm) non regge. Oggi vediamo di tutto. E, quindi, con la mia coscienza faccio i conti ogni giorno, senza che nessuno su Facebook debba invitarmi a scuoterla. Ci vuole tempo affinché le “coscienze” generino moti di solidarietà umana che trovino concretezza in atti politici capaci di cambiare i governi e il sistema-Occidente; molto più tempo di quello che ci è occorso per asciugare una lacrima (pur autentica) versata su una morte dalla quale presto ci saremo già assolti.

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