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Pizzicannella, ‘Rito di passaggio’: niente sarà più come prima

Per i quattro protagonisti, e per l’autore del romanzo Alessio Pizzicannella, al suo esordio letterario per Baldini+Castoldi: l’intervista

Dalla fotografia alla cinematografia, alla scrittura: ‘Non credo nei piani B, non voglio una via d'uscita’ (foto: Giuseppe Toja)
18 settembre 2021
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Si parte da uno di quei giochi che gli smartphone non possono riprodurre, il tiro alla fune che brucia le mani, soprattutto perdendo, per scoprire che siamo in un orfanotrofio tra le montagne e il mare, la Villa, dove tutto scorre come può scorrere la vita in un orfanotrofio. T, Indy, Nero e Mia, tre ragazzini e una ragazzina; T, voce narrante, il pragmatico; Indy, il sensibile, aggrappato alla fantascienza, che ha le forme di un paperbook di ‘Rito di passaggio’ di Alexei Panshin (Urania, 1968), coperta di Linus contro il logorio della sua giovane vita moderna; Nero, ribelle, incazzoso, punk-rock, che vuole bruciare le tappe e non guarda in faccia a nessuno, tranne che a Mia; e Mia, che è un passo avanti a tutti perché è più grande di un paio d’anni, ma anche perché è una ragazza, e non stiamo qui a rivangare di quando a 12 anni, alle ragazze, lanciavamo i gavettoni perché non ci capivamo nulla.

Un orfanotrofio che si rispetti ha delle suore, ma il termine non è valido. Si dice ‘Invisibili’, termine in verità estendibile a tutti, anche a chi dentro un orfanotrofio ti ci ha portato. Succede che tra Indy e Mia, che sono fratelli, un invisibile ne vorrebbe adottare soltanto uno: basta e avanza perché i quattro in questione sentano il bisogno di vivere l’avventura perfetta, il rito di passaggio verso la montagna ispirato dalle letture di Indy, rito forse anche più grande di loro, ma dopo il quale nulla sarà più come prima.

Non è ‘Stranger Things’ perché non è un horror; non è ‘Stand By Me’ perché se quattro ragazzini s’inoltrano nel bosco non è per forza Stephen King. È un romanzo che gronda poesia senza che uno se ne accorga, che resuscita il 1984 in tutte la sua epicità – A-Team, Spazio 1999, Supercar, le Olimpiadi di Los Angeles, Pietro Mennea (“Aveva ancora il record del mondo ma si chiamava Pietro. Niente di personale, però non aveva niente di esotico”, paragonato a Carl Lewis) – senza alcun compiacimento, commiserazione, nostalgia canaglia e sindromi dell’epoca d’oro (erano pur sempre gli anni delle bombe dell’Ira e del mostro di Firenze, non è che nel 1984 andasse tutto alla grandissima). ‘Rito di passaggio’ è l’esordio letterario di Alessio Pizzicannella, già fotografo del rock, e stavolta siamo noi a fare la foto a lui. Un esordio sotto l’egida di Baldini+Castoldi, ora pre-ordinabile su Amazon, nei negozi dal 23 settembre.

‘A Elia e Julia, nella speranza di non esservi mai invisibile’

«Volevo scrivere qualcosa che potessero leggere i miei figli – ci dice l’autore – con i quali stavamo facendo una sorta di retrospettiva dei vari Spielberg e affini, di quegli anni Ottanta. E ho pensato a quel passaggio, quella trasformazione che avviene per tutti, a 12-13 anni, e che quando avviene sei troppo piccolo e immaturo per apprezzarlo. Te ne accorgi, perché è anche fisico, ma non hai la capacità di contestualizzarlo e di godertelo. L’unica cosa che puoi fare è mitizzarlo, ed è esattamente ciò che faccio fare ai quattro ragazzi del romanzo». Nulla ha a che fare, quindi, con lo scrittore (vale anche per i cantautori) che a un certo punto della vita decide di scrivere un libro con la sua foto da piccolo in copertina, nato dalle soffitte polverose con gli album di famiglia, le scatole con dentro chissà che cosa e le lettere d’amore mai spedite: «No, niente di tutto questo, anche per il fatto che di natura non riesco a essere nostalgico, a guardarmi indietro. Mi sembrava invece interessante poter tornare su quel momento della vita avendo i miei figli a disposizione, che hanno più o meno quell’età e che ho provato ad analizzare ‘clinicamente’». Per dirla con tenerezza, «due cavie» (ma sempre cuori di papà).

«È un passaggio fisico», continua Pizzicannella, «una trasformazione che è anche l’ultima occasione per fantasticare». Detto con le parole del libro: “Incoscienti che quel rivoluzionario desiderio d’individualità diventerà invece la nostra prigione, sprechiamo così, stupidamente in attesa, l’ultima opportunità di evadere e nasconderci ancora una volta nei nostri castelli in aria”. «Sì, nel concreto dell’adolescenza, della diffidenza, nell’isolamento, perché l’elemento gruppo, dopo, ha un valore diverso: cerchi quelli come te, cerchi una conferma da qualcuno. A 10-12 anni, invece, il gruppo si forma per pura empatia, tra bambini completamente diversi tra loro. Se ci pensi, alle scuole superiori cominci a sceglierti i tuoi simili, e la musica è una bussola perfetta per capire con chi puoi accompagnarti, che per me che ascoltavo di tutto era un dramma, ero amico di tutti e di nessuno». Tecnicamente, su T, Indy, Mia e Nero, c’è «una spolverata» di Elia e Julia, i suoi figli, ma anche una spolverata di se stesso: «Sono abbastanza polemico quanto Nero, pragmatico come T, solitario e mai gregario come Mia, ma mi sento in un certo modo incompleto come Indy, che non è un insoddisfatto, ma un incompleto». Incompleto da leggersi, eventualmente, come virtù.

‘Rito di passaggio’ scorre tra le montagne e il mare, senza connotazioni precise: «Il mare potrebbe essere l’Abruzzo, dove ho trascorso tante estati da piccolo». La montagna «è il Basòdino, dove sono stato con mio figlio mentre scrivevo il libro. Ho tolto quei settecento chilometri che stanno in mezzo».

‘Quattro attori in una baita, è horror’

Romano di nascita, studi londinesi di fotografia, venticinque anni di ritratti dei grandi del rock (Stones, Metallica, REM, Radiohead, U2, ma anche i Negrita del libro ‘Verso sud’, Ligabue in tutte le salse e i grandi di JazzAscona e del Locarno Film Festival) Alessio Pizzicannella è in Ticino dal 2012. «Di quel tipo di fotografia, delle stelle della musica e di quell’ambiente in generale ero esausto. Era un’attività che avrei potuto portare fino alla pensione, come in molti in modo sano farebbero, ma non mi ci vedevo ad andare a fotografare i ragazzini che uscivano da X Factor». Da qui, il passaggio (in rima) dalla fotografia alla cinematografia, cominciando da ‘Come un morto ad Acapulco’, con Ambra Angiolini, per arrivare a ‘Glastonbury’, breve documentario per la Rsi, fino a ‘Dawn Chrous’, fatto e finito, che deve solo uscire: «È un film svizzero, girato in inglese sulle Isole di Brissago, con quattro attori inglesi, tra cui la nipote di Jean-Paul Belmondo, che abbiamo appena perso. Un film low-budget che non si è messo in fila a Berna, ma chiedendo alle realtà locali che ci hanno permesso di depennare grosse spese. Scritto per costare poco, in questa location pazzesca che magari diamo per scontata. Io no. Ma all’estero, quando parli di un’isola tropicale in un lago svizzero sulla quale, tra un banano e una palma, vedi le cime innevate delle Alpi, ti prendono per matto. E devi spiegargli che non sono effetti speciali, perché non avremmo avuto i fondi». Di seguito, il Pizzicannella-pensiero sui film low-budget: «Si possono fare con meno dei famosi milione e mezzo/due milioni. Io l’ho scritto in modo che costasse poco, ma non sono il primo, ho guardato a come fanno gli altri: gli americani? Quattro attori in una baita, è horror; i francesi? Quattro personaggi intorno a una tavola, è commedia».

Per la scrittura, parole sue, a Pizzicannella gli è presa la scimmia: mentre ‘Rito di passaggio’ esce, c’è un nuovo libro, «attualmente nella sua fase di ricerca, la più bella, quella che ti dà l’alibi per leggerti un miliardo di cose su di un singolo argomento e approfondirlo in maniera autistica. Sto scrivendo altre sceneggiature. Non faccio altro ormai». Quanto alla fotografia, «non credo nei piani B, non voglio una via d’uscita». Oggi, forse solo gli amici Negrita possono farsi fotografare da lui: «Accade una volta l’anno, tanto per ricordarmi come funziona».

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