Estero

Stefano Cucchi ucciso di botte

Svolta nel giudizio per la morte del giovane, nel 2009, in una caserma dei carabinieri

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11 ottobre 2018
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Stefano Cucchi morì per le botte ricevute nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 in una caserma dei carabinieri. E a dargliele furono, appunto, due carabinieri. È stata la deposizione di Francesco Tedesco, uno dei tre militari a giudizio per omicidio preterintenzionale, a determinare la svolta nel secondo processo per la morte del “tossico” e piccolo spacciatore, avvenuta sei giorni dopo il pestaggio.

Anni di silenzi, di tentativi di insabbiamento delle indagini; di ostinata ricerca della verità da parte della sorella di Cucchi, Ilaria; di insulti, minacce; di disprezzo ostentato da un futuro ministro dell’Interno (“Capisco il dolore di una sorella che ha perso il fratello. Ma mi fa schifo”, Matteo Salvini, gennaio 2016, dopo un post polemico della stessa Ilaria Cucchi nei confronti delle “facce di coloro che si sono vantati di avere pestato mio fratello”), tutto resettato da Tedesco, testimone oculare su quello che subì Cucchi. Il ricordo del carabiniere, coimputato insieme a Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, ha “abbattuto il muro”, ha detto Ilaria Cucchi. E fatto cambiare versione a Salvini: “Sorella e parenti sono i benvenuti al Viminale”.

La sorte di Cucchi si decise la notte tra il 15 e il 16 ottobre, con un battibecco tra il giovane appena arrestato e uno dei due carabinieri. Dopo una serie di insulti arrivò lo schiaffo di Di Bernardo e partì il pestaggio: “un’azione combinata”, durante la quale Stefano perse l’equilibrio e cadde sul bacino per il calcio di un carabiniere e una violenta spinta dell’altro. Infine una botta alla testa, tanto violenta da far sentire il rumore – è stato messo a verbale – e l’ultimo colpo sferrato da D’Alessandro con un calcio in faccia a Cucchi mentre era a terra. “Gli dissi basta, che c...fate”, ha fatto mettere a verbale Tedesco che aiutò Cucchi a rialzarsi. “Sto bene, io sono un pugile”, gli disse lui.

 
‘Non è successo niente’

Fin dai primi minuti successivi all’episodio, il militare aveva informato l’allora comandante della stazione Appia, Roberto Mandolini, imputato al processo per calunnia e falso assieme a Vincenzo Nicolardi. Ma dal comandante non ebbe risposta neppure quando – dopo la notizia della morte di Cucchi – Tedesco scrisse ciò che aveva visto in un file salvato su un pc. “Stampai due copie del file dell’annotazione redigendo due originali”, che, benché protocollate, non sono state più ritrovate nell’archivio, né sembrano mai arrivate all’autorità giudiziaria. Anzi. “D’Alessandro e Di Bernardo mi dissero che avrei dovuto farmi i c... miei”, ha detto Tedesco al pm che nel giugno scorso ha presentato una denuncia contro ignoti per la sparizione della notazione di servizio. Lo stesso maresciallo Mandolini, prima dell’interrogatorio, consigliò Tedesco: “Digli che non è successo niente”.

E quando, passato un congruo numero di anni, l’appuntato Riccardo Casamassima riferì al pm le parole di alcuni suoi colleghi a proposito del “massacro” subito dal giovane dopo l'arresto (facendo così riaprire l’inchiesta) subì a sua volta minacce e venne trasferito.

A conclusione del processo di primo grado, nel 2013, i giudici stabilirono che Cucchi era morto per malnutrizione (pesava 37 chili) e che non c’era stato alcun pestaggio. A essere condannati furono solo tre medici, per omicidio colposo; in appello tutti gli imputati vennero assolti, e quando la Cassazione ordinò un nuovo processo per i medici, era ormai intervenuta la prescrizione. Già una commissione parlamentare d’inchiesta, nel 2009, aveva concluso che Cucchi era morto per “abbandono terapeutico”. L’inchiesta venne però riaperta nel 2015 e nel 2107 la procura decise il rinvio a giudizio dei carabinieri, dinanzi a sempre più rilevanti prove che si era trattato di un pestaggio. E che i loro superiori avevano fatto di tutto per occultarlo. Nel 2016 l’incauto futuro ministro dell’Interno, paragonò il post polemico di Ilaria Cucchi alla campagna di Lotta Continua contro il commissario Calabresi. Confondeva date e persone: a morire “accidentalmente” nei locali della questura era stato un innocente.

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