L'analisi

Sovranismo Usa al primo test

Come mai un presidente che vanta record di crescita economica e di calo della disoccupazione affronta un imminente voto col timore di una sconfitta?

22 ottobre 2018
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Come mai un presidente che vanta record di crescita economica e di calo della disoccupazione affronta un imminente voto col timore di una sconfitta? Eppure è quanto sta avvenendo negli Stati Uniti. Dove, fra tre settimane, la consultazione “di metà mandato” (si rinnovano la Camera e parte del Senato, più i governatori di 34 Stati), potrebbe infliggere a Donald Trump il primo dispiacere elettorale. Il 6 novembre l’irruente e prepotente capo della Casa Bianca rischia infatti di perdere la maggioranza repubblicana al Congresso. Più probabilmente – a credere ai sondaggi – con una sconfitta alla Camera dei rappresentanti, mentre al Senato si confermerebbe la supremazia del Grand Old Party, il partito che dall’ostilità iniziale nei confronti del ‘tycoon’ è passato a una sostanziale e docile sudditanza per chi l’ha imprevedibilmente riportato al potere. Si tratterebbe comunque di una sconfitta.

Nonostante gli ampi poteri di cui gode, un presidente americano alle prese con l’ostilità di uno dei due rami del parlamento incontra storicamente grandi difficoltà, deve dar fondo alla sua capacità negoziale, mentre l’arte del compromesso non è certo la miglior dote di un uomo intollerante come Trump. Tra le cause di questa eventualità possono essere annoverati lo spettacolo della caotica gestione dell’Amministrazione, la fuga di numerosi collaboratori, la sua condotta morale, l’ostilità di una parte crescente di elettorato femminile, l’attacco all’assicurazione sanitaria di Obama (che oggi risulta la principale
preoccupazione degli americani). Insomma, una somma di fattori emotivi e fattuali che in parte potrebbero annullare i successi di un rilancio economico (in realtà già iniziato con il suo predecessore) che molti analisti considerano ancora fragile: più che altro frutto del massiccio taglio delle tasse regalato alle imprese, che fa esplodere il deficit pubblico, toglie fondi agli aiuti sociali, sposta il fardello fiscale sulle future generazioni.

Specularmente, il test elettorale di novembre dovrà dirci se il partito democratico – uscito con le ossa rotte dalle ultime presidenziali – abbia qualche possibilità di superare una crisi che è il risultato di mancanza di leadership, immedesimazione con élite insensibili ai danni provocati dagli eccessi del mercato, rabbia per le crescenti diseguaglianze. Non gli sarà facile mobilitare il proprio elettorato in una consultazione che abitualmente registra una bassa affluenza alle urne (soltanto il 36,7 per cento degli aventi diritto nel 2014). Ma, soprattutto, il partito è ancora imballato nel dilemma di fondo: da una parte rappresentanti di una politica centrista tradizionale, dall’altra giovani candidati (soprattutto donne) che chiedono scelte sociali decisamente più radicali. Le uniche, in effetti, che possano attirare l’interesse dei ceti medi sfiancati dalla crisi.

Non bastano certo i sondaggi. Conosceremo solo il 7 novembre la conformazione della mappa parlamentare statunitense. E, soprattutto, se il sovranismo (America first) possa registrare il primo inciampo proprio là dove è stato forgiato.

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