Economia

Global tax, il problema di un’imposta sul profitto

L’accordo raggiunto in sede G20 è una svolta notevole, ma restano aperte la questione aliquota e le nuove basi imponibili

L’immagine simbolo dell’ultimo vertice
(Keystone)

È indubbio che l’accordo raggiunto in sede G20 per un’imposta comune sulle società e le multinazionali a livello mondiale è una svolta notevole senza precedenti nella storia dei sistemi tributari e degli accordi diplomatici internazionali. Si è raggiunto dopo molti anni di discussioni, colpi di scena e passi indietro, un accordo storico, che rappresenta una svolta nella dimensione multilaterale. Va riconosciuto agli Usa il merito fondamentale di aver cambiato radicalmente atteggiamento, e dopo la riforma fiscale di Trump che aveva introdotto misure unilaterali e non cooperative – tipo la Gilti – il ministro del Tesoro, Janet Yellen, ha reso possibile il raggiungimento di una soluzione importante. Certo molti paesi hanno aderito alquanto controvoglia, come l’Irlanda, e la stabilità dell’accordo è tutta da provare, quando dopo il 2023 esso dovrà diventare operativo.

Al compromesso hanno aderito quasi tutti i paesi, 136 per la precisione, che facevano parte dell’Inclusive Framework dell’Ocse; in particolare, anche se all’ultimo minuto, Brasile, India e Cina. È una vittoria dell’Ocse va ammesso, è il frutto di un lavoro che è partito all’inizio dello scorso decennio, è passato per la pubblicazione di un lavoro molto significativo nel 2015, il rapporto Beps (Base erosion and profit shifting) che ha identificato i problemi principali, le distorsioni economiche e tributarie, gli effetti dannosi sulla concorrenza e l’equità dei sistemi tributari. Da questo studio sono partiti gli scambi diplomatici intensi, alcuni rapporti intermedi e Blueprint, alle volte duri e divisivi – ne ho visti alcuni di persona – che però sono stati condotti con coraggio dal segretariato dell’Ocse e hanno ricevuto un forte sostegno da parte di Italia e Francia. Il ministro Yellen ha affermato che si è raggiunto «un accordo rivoluzionario nelle norme globali sull’imposizione societaria, riducendo i tax havens e aumentando il gettito delle grandi società di 150 miliardi di dollari».

I due pilastri

Veniamo all’accordo. Prevede un’aliquota minima effettiva del 15% – anche se si è scelto di eliminare «almeno del 15%» – e alcune norme per costringere le grandi multinazionali a dichiarare i profitti e pagare di più nei paesi dove realizzano ricavi. L’accodo prevede anche il divieto per due anni di imporre altre «digital service tax (Dst)» e nei fatti l’eliminazione della Dst italiana e francese e di altre misure simili in India e Spagna. Le aziende con un fatturato superiore a 20 miliardi di dollari dovranno ripartire il 25% dei profitti, in eccesso del margine del 10%, stimato come un tasso normale di profittabilità, nei paesi dove esse realizzano il fatturato (le vendite). L’accodo prevede anche che dopo 7 anni il volume di fatturato possa scendere a 10 miliardi di euro.

Più nel dettaglio l’accordo stabilisce una soluzione basata su due pilastri. Il Pillar One mira ad assicurare una distribuzione più equa dei profitti delle multinazionali, soprattutto nei paesi nei quali le multinazionali realizzano le vendite. Le stime effettuate dall’Ocse parlano di un importo di profitti riallocabili alle diverse «market jurisdictions» superiore a 125 miliardi di dollari annui – con la parte più grande a vantaggio dei paesi meno sviluppati. Questa cifra può sembrare rilevante o troppo piccola; è sicuramente un passo in avanti ma è questo il vero importo della torta? Essendo frutto di un compromesso, è difficile sapere se questa cifra corrisponda al reservation price degli stati più forti o delle multinazionali digitali. È un buon punto di partenza, ma le somme che veramente sono coinvolte ci appaiono di ordine decisamente diverso.

Il Pillar Two prevede invece una «global minimum corporate tax rate» del 15%. Questa aliquota minima si applicherà alle società con un volume di ricavi superiore a 750 milioni di dollari e l’Ocse stima un gettito addizionale di circa 150 miliardi per i diversi stati, soprattutto per quelli dove risiedono le multinazionali digitali. Se pensiamo a quale fosse la discussione solo tre anni fa, il salto in avanti è maestoso, implica una ripresa del multilateralismo che fa ben sperare.

L’aliquota...

L’accordo dovrebbe partire dal 2023 quando saranno definiti gli aspetti operativi salienti. Sia chiaro, siccome siamo convinti che non ci sia la volontà di rinunciare a fonti di gettito importanti, soprattutto da parte degli Usa (o della Cina), essendo le aziende multinazionali digitali quasi tutte di questi paesi, questo accordo è un punto di partenza importante, ma di cui vanno esaminate le luci e le possibili ombre: come è noto il «diavolo è nei dettagli».

Innanzitutto, il valore dell’aliquota comune, il 15%, è chiaramente troppo basso e distante dall’aliquota minima delle imposte personali sul reddito. Si dovrà lavorare per portare questo livello almeno al 21%, meglio al 23-25%.

... e i profitti

C’è poi una delle questioni più rilevanti che secondo noi è irrisolta. E cioè il ruolo che in un mondo ideale possono giocare le imposte sulle società. L’accordo si basa sulla convinzione che le nuove basi imponibili dell’economia digitale – i big data, la mole di dati che le piattaforme digitali dispongono e potranno sempre di più usare in futuro per finalità commerciali, politiche e di profilazione delle preferenze delle persone – possano essere completamente sintetizzate e raccolte nell’imposta sulle società. Detto diversamente, i profitti sono il punto chiave dei sistemi tributari ed economici del futuro? Oppure la digitalizzazione delle economie farà sempre di più emergere forme di valore aggiunto che fuoriescono dal concetto di profitto aziendale? Se va ammesso che le imposte sui ricavi possono essere distorsive, comportare duplicazioni dell’imposta stessa ed essere azioni unilaterali, va anche riconosciuto che in un mondo sempre più immateriale, la partita si sposta su una parte del conto economico, cioè sui ricavi: la pratiche elusive realizzate con molta facilità dalle multinazionali (con il transfer pricing) permettono alle imprese di giocare sui costi e sulla loro ripartizione territoriale, quindi di influenzare in modo significativo l’ammontare di profitti che ne risulta.

Il premio Nobel Paul Romer ha intelligentemente evidenziato che il problema di un’imposta sui profitti è che il profitto «non ha sede fisica»: è la differenza tra i ricavi (che sono «bloccati in un posto fisico») meno i costi (che per una grande impresa possono emergere in molti paesi). Siccome il «ricavo ha una precisa localizzazione fisica, un’imposta sui ricavi non si troverà a dover fronteggiare questo problema: il ricavo è pressoché immobile ed è fortemente collegato a un utente/cliente che ha in genere una precisa sede fisica»: quindi resterebbero poche opportunità per sfruttare le convenzioni contabili e alterare le origini del gettito.

Insomma, la storia non è finita ed è serio riflettere sulle vere potenzialità di un’imposta sui profitti in un mondo digitale.

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