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I ‘Trenta Ingloriosi’ dell’investment banking elvetico

Rivisitati con lo storico dell’economia Tobias Straumann, secondo il quale nazionalizzare in parte il Credit Suisse non era poi una brutta idea

In sintesi:
  • Storia di come le banche svizzere sono arrivate a certi capitomboli
  • Ipotesi su come gestire il colosso appena nato, dopo le lezioni del passato
  • Ma ‘le banche svizzere non sono mai state piccole e noiose'
(Keystone)
1 aprile 2023
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“Se vedete un banchiere svizzero saltare dalla finestra, seguitelo. Ci sarà certamente qualcosa da guadagnare”. Il vecchio motto di spirito attribuito a Voltaire fa capire al volo quale sia stata per lungo tempo la reputazione delle banche di casa nostra: furbe, magari un po’ ambigue, ma degne di grande fiducia quando si tratta di distillare denaro dal denaro. A danneggiare anche in patria quell’immagine – più ancora dei molti scandali legati all’evasione fiscale e al riciclaggio – è la serie di capitomboli strategici fatti negli ultimi anni dai grandi marchi della finanza elvetica. L’ultimo ha notoriamente condotto all’acquisto del Credit Suisse da parte di Ubs, con la nascita di un unico colosso molto più grosso e pesante della Svizzera stessa. Un trauma che ha avviato, com’era prevedibile, l’ennesima seduta di autoanalisi per una piazza finanziaria e un’opinione pubblica inevitabilmente un po’ smarrite. Per orientarsi meglio, però, serve lo sguardo lungo dello storico: per questo abbiamo parlato con Tobias Straumann, professore di Storia economica all’Università di Zurigo.

Molti pensano che nell’ultimo secolo le banche svizzere siano passate dall’essere piccole imprese solidissime, prudenti e perfino troppo noiose, a dei giganti della finanza casinò. Si sarebbe insomma passati dal severo uomo d’affari in cilindro e doppiopetto – che guadagnava sulla semplice differenza tra gli interessi riconosciuti ai correntisti e quelli richiesti ai debitori – al broker cocainomane con la fissa del tavolo verde, che pretende di diventare ricco con le oscure speculazioni dell’investment banking. C’è del vero?

Credo che si tratti di percezioni sbagliate. Le banche svizzere non sono mai state piccole e noiose entità locali, bensì attori finanziari internazionali che corrono da sempre grossi rischi e a volte proprio per questo si infilano in qualche guaio. Lo stesso Credit Suisse, all’epoca del suo fondatore Alfred Escher, investì in un settore rischiosissimo come quello delle ferrovie e quasi subito si trovò a un passo dal fallimento. È vero invece che solo più avanti ci si è spinti nella dimensione dell’investment banking per come lo conosciamo oggi, con l’apertura di filiali a Londra e New York – negli anni Ottanta e soprattutto Novanta – nel tentativo di entrare nella ‘Serie A’ degli istituti finanziari mondiali.

Come si è arrivati fino a lì?

È una lunga storia. Fin dagli anni Venti del secolo scorso, le crisi finanziarie e gli sconvolgimenti politici all’estero hanno generato una fuga di capitali verso Stati neutrali quali l’Olanda, la Svezia e ovviamente la Svizzera. È così che le banche elvetiche hanno avuto la possibilità di emettere azioni e obbligazioni per finanziare imprese estere. Questa però non era un’operazione particolarmente rischiosa. Una seconda fase si aprì negli anni Sessanta, con il coinvolgimento svizzero nel mercato londinese degli eurodollari, in cui si muovevano gli investimenti in valuta americana al di fuori dei confini Usa. Grazie alle loro fiorenti operazioni di gestione patrimoniale, le banche svizzere disponevano di abbondanti risorse da investire in obbligazioni e azioni denominate in dollari. A quel punto pensarono di poter fare un ulteriore salto di qualità, approfittando della globalizzazione per acquistare coi loro grandi mezzi banche d’investimento a Londra e a New York. Potevano permettersi di farlo, ma dimostrano di avere grandemente sopravvalutato le loro capacità e competenze in materia.

Perché? Possiamo dedurre che il vantaggio competitivo offerto dal segreto bancario – il quale garantiva al Paese un costante, generoso e ‘spontaneo’ afflusso di capitali – abbia preservato i banchieri svizzeri da una sorta di ‘darwinismo’, di selezione che avrebbe premiato profili più adatti a solcare i perigliosi flutti della finanza globale?

Sì, probabilmente il problema più grosso fu proprio una mancanza di esperienza nella gestione delle banche d’investimento. L’ecosistema finanziario svizzero – al quale il segreto bancario garantiva in effetti grandi risorse – era legato a tradizioni alquanto differenti. Ripeto, non sto dicendo che i banchieri svizzeri non avessero esperienza internazionale in contesti anche rischiosi. Ma l’investment banking è un affare tipicamente anglosassone, tanto che fu proprio al management cresciuto in quell’ambiente che le banche di Zurigo dovettero affidarsi.

Quando le cose vanno male, in effetti, una delle critiche che sentiamo più spesso è rivolta a una classe dirigente straniera, ‘mercenari’ che avrebbero conquistato e svenduto le ‘nostre’ banche. Al netto del retrogusto xenofobo che a volte accompagna questi commenti, si tratta di osservazioni campate per aria?

Il Credit Suisse si è molto americanizzato, e quel tipo di management ha finito per imperversare anche a Zurigo, dove è diventato difficile arginarlo. Va detto però che si tratta di una strategia scelta deliberatamente dalla banca. È quello che capita quando decidi di tuffarti in una realtà così travolgente.

I ‘Trente Inglorieuses’ delle banche d’investimento hanno portato con sé anche una serie di fusioni e acquisizioni: se all’inizio degli anni Novanta si potevano contare almeno cinque grandi banche in Svizzera, ora ne resta solo una (di dimensioni mostruose). C’è un legame causale tra la riduzione nel numero di tali istituti di credito e l’avventura in quel mondo ‘americano’?

Dipende dai casi. Volksbank e Leu erano grandi banche, ma non erano davvero internazionali, e la loro crisi fu dovuta piuttosto a quella dei mutui a livello nazionale. Al contrario, la fusione del 1997 tra Bankverein e Bankgesellschaft (Unione di Banche Svizzere e Società di Banca Svizzera, ndr), che diede vita a Ubs, ebbe luogo proprio per conquistare il mondo dell’investment banking: in questo senso la prima aveva già occupato posizioni importanti a Londra e a New York, ma si trovava a essere sottocapitalizzata; la seconda era rimasta indietro su quel fronte, ma aveva un sacco di capitali. Si pensò pertanto di unire quelle che si ritenevano le rispettive forze. D’altronde, quella era la mentalità dominante negli anni ’90, quando il motto più diffuso era “globalizza o muori”. Ora invece, a causa di una corsa alle banche da manuale, ci ritroviamo con una banca sola.

Quanto a questo finale di partita della grande galoppata globale, il nuovo Ceo di Ubs Sergio Ermotti ci tiene a precisare che la concentrazione di quote di mercato “non è vera. Le banche cantonali e le Raiffeisen hanno, complessivamente, delle quote di mercato più elevate di Ubs e Credit Suisse combinate”. Dal punto di vista dell’uomo della strada, invece, è come se avessimo mandato in America un figliolo che a forza di hamburger è ingrassato enormemente, e ora torna a casa pretendendo di posare le sue abnormi terga non solo sulla concorrenza, ma anche sui contribuenti. Farneticazioni populiste?

Sul mercato ipotecario abbiamo in effetti concorrenza, però questa manca nel credito commerciale, rivolto a quelle imprese che dipendono dalle banche per crescere e investire. In quest’ultimo mercato vediamo semmai, se non un monopolio, una posizione fortemente dominante sul mercato svizzero dell’accoppiata tra Ubs e Credit Suisse. E questa fusione è davvero molto preoccupante: è la seconda volta – dopo il salvataggio di Ubs nel 2008 – che il governo deve intervenire per soccorrere una banca ‘troppo grande per fallire’. Ho paura che non sarà l’ultimo caso: è una tendenza, uno schema storico che vediamo ripetersi a livello internazionale. Era già un problema prima della fusione, figuriamoci ora.

Un’alternativa all’acquisizione sarebbe stata la nazionalizzazione del Credit Suisse, che poi si sarebbe potuto rivendere a pezzi o per intero. La parola, però, pare evocare scenari sovietici: ci si affretta a notare che nazionalizzare fa a pugni con la ‘cultura’ finanziaria svizzera, e che comunque il governo non ha le competenze per gestire una banca. È d’accordo?

No, si tratta di un malinteso circa la vera natura della nazionalizzazione, e non è neanche vero che non ne abbiamo mai avute. È anzi un’opzione molto importante nel corso delle crisi finanziarie, tanto che la si è scelta nel 2008 con Ubs: di fatto, all’epoca la banca fu parzialmente nazionalizzata attraverso l’acquisto da parte della Confederazione di obbligazioni convertibili, uno strumento che permette di diventare azionisti potenziali e così segnalare a tutti che si sta acquisendo il controllo. Si sarebbe potuto nazionalizzare parzialmente anche Credit Suisse, tramite l’acquisto pubblico di azioni o convertibili in quantità sufficiente a dettare certe condizioni, ad esempio nel riutilizzo dei profitti, nella scelta del management, nella politica salariale e così via. Era qualcosa di fattibile, che non comporta la necessità da parte del Consiglio federale di mettersi a dirigere direttamente la banca. Anche in altri Paesi troviamo molti esempi del successo di nazionalizzazioni parziali. Ora invece lo Stato si fa carico dei rischi, senza ottenere in cambio influenza, né profitti. Tutti i contro, ma nessun pro.

Dal punto di vista legislativo e della sorveglianza, crede che la storia recente ci abbia mostrato qualche grossa cantonata? Le regole per le banche ‘too big to fail’ erano troppo lasche?

Da storico dell’economia, sono sempre stato scettico circa l’idea che si possano prevenire le crisi bancarie tramite una regolamentazione particolarmente sofisticata. Dobbiamo essere onesti: le crisi di questo tipo sono diventate una caratteristica ricorrente dell’economia globale a partire dagli anni Settanta. Piuttosto, ci servono piani semplici per prevedere operazioni di parziale nazionalizzazione.

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