Economia

Un rialzo ‘irrazionale’ dove non tutto è tornato come prima

Wall Street ci ha abituato a questi strani comportamenti

Wall Street
(Keystone)

«Perché mai le azioni americane si son messe a correre la scorsa settimana», ha esclamato Michael Wilson, strategist di Morgan Stanley? Dopo tutto quel che era successo alle banche regionali e ciò che s’è visto con l’acquisizione del Credit Suisse a opera di Ubs, una Wall Street in rialzo è parsa reazione del tutto irrazionale. In effetti, l’indice S&P aveva chiuso la settimana (13-17 marzo) in rialzo dell’1,4% e la corsa è proseguita fino a giovedì scorso, cosicché il bilancio della temibile e inaspettata crisi si misura in un rialzo dello 0,3% per la borsa americana, contro un ribasso del 3,2% per lo Stoxx europeo. La reazione è parsa piuttosto incomprensibile ai (pessimisti) operatori di BofA, e pure ai (moderatamente ottimisti) di Goldman Sachs e persino a Marko Kolanovic di Jpm, che fino a 20 giorni fa aveva profuso una inesauribile fiducia predicando il mantra del «Buy the dip» a ogni piccolo ribasso.

Per gli uomini di Vanda Research la reazione di Wall Street pare un’insania: «Quando cade una tessera del Domino, non puoi mai sapere cosa succederà dopo», hanno commentato. È vero che Silicon Valley Bank e Signature Bank sono state salvate dall’intervento coordinato della Fed e del Tesoro ed è vero che il sistema delle banche regionali americane è finito sotto l’ombrello di protezione delle autorità, ma pensare che tutto sia tornato come prima, anzi meglio di prima, attiene più alla sfera della psicologia che alla logica dell’economia e della finanza. Del resto, Wall Street ci ha abituato a questi strani comportamenti. Nel marzo 2008, il crollo di Bear Stearns e la conseguente acquisizione da parte di Jpm, seguiti al salvataggio o al fallimento di una buona dozzina di altre banche, vennero salutati, dopo una breve esitazione, da un rimbalzo di Wall Street del 6%, nell’ostinata convinzione che tutto fosse tornato come prima. Solo cinque mesi dopo, il disastro Lehman sancì l’inizio della più grande crisi economico-finanziaria dal 1929.

Purtroppo, anche adesso, nulla è tornato esattamente come prima. La fase acuta della crisi è stata tamponata, ma con conseguenze destinate a durare. La fuga dei depositi dalle banche regionali è solo all’inizio. Bloomberg scrive che la Federal Home Loan Bank System (istituzione sponsorizzata dal governo per favorire l’erogazione di mutui casa) aveva già emesso titoli di debito pari a 304 miliardi per finanziare le banche regionali; uniti ai 165 miliardi elargiti dalla Fed, fanno quasi i 550 miliardi di depositi in uscita, stimati da Jpm al 18 marzo. Inoltre, le perdite potenziali (non realizzate) su cartolarizzazioni dei mutui e titoli di stato del settore creditizio ammonterebbero a quasi 2 mila miliardi, scrive il Washington Post, citando un paio di studi universitari.

Se le banche fossero costrette a liquidare questi titoli a prezzi di mercato, vedrebbero eroso circa l’80% del proprio capitale. E, secondo un altro studio universitario (Stanford e Columbia), «almeno 190 banche corrono il rischio di non poter rimborsare i depositi non assicurati» (oltre i 250mila dollari).

Ma, anche ammesso che la Fed torni a salvare il sistema con un nuovo quantitative easing (ora s’è limitata a prestare denaro dietro garanzia) e che il Tesoro (indebitato come mai) decida di sussidiare il sistema creditizio con i soldi dei contribuenti, è difficile credere che tutto torni a posto. Osserva Goldman Sachs che le piccole e medie banche americane rivestono un ruolo assai importante per l’economia, poiché a loro fa capo circa il 50% dei prestiti commerciali e industriali, il 60% di quelli residenziali, l’80% dei finanziamenti agli immobili commerciali e il 45% dei prestiti al consumo.

Pur supponendo che le banche con maggiori difficoltà siano costrette a ridurre del 40% i nuovi prestiti e del 15% quelle messe meglio, ci sarebbe, secondo Goldman, una contrazione del credito pari al 2,5%, che si tradurrebbe in una riduzione del Pil 2023 di 3 decimali: poca cosa se si crede, come pensa Goldman, che l’economia Usa cresca quest’anno solo dell’1,2%, anziché dell’1,5%; ma situazione preoccupante, se si guarda alle ultime stime della Fed che indicano il Pil in crescita di un anemico 0,4%. La fonte di maggior preoccupazione arriva dai prestiti concessi al settore degli immobili commerciali, stimati, solo per le banche piccole in 2.300 miliardi, ossia l’80% del sistema bancario, circa il 38% di tutti i loro impieghi.

Immobiliare in bilico?

Se si pensa che, specie nelle grandi città, metà degli immobili sono vuoti, che già parecchie società sono in difficoltà e alcune già fallite e che circa 270 miliardi di titoli costruiti sui mutui sono prossimi alla scadenza, il messaggio di Tomasz Piskorski, professore alla Columbia Business School, suona assai poco rassicurante: «Ora siamo in una situazione davvero precaria». Se si aggiunge che anche le rate non pagate per l’acquisto di auto sono salite al 9,1% (dal 5,8% di ottobre), e si parla di un mercato di quasi 1.600 miliardi, raddoppiato rispetto al 2007, si può ben comprendere l’allarme lanciato da Fitch: «Gli americani non più in grado di pagare le rate auto sono più di quelli che si contavano al picco della grande crisi finanziaria (2008)».

Il confronto con le condizioni viste 15 anni fa non è poi così peregrino. Il debito globale, scrive S&P Ratings, ha raggiunto il record di 300mila miliardi di dollari. il 349% del Pil, pari a 37.500 dollari pro capite, con oneri finanziari che, con il rialzo dei rendimenti, sono cresciuti negli Usa ed Eurozona di 380 per abitante. Ma gli operatori di Wall Street, educati da tre lustri di denaro a zero e cullati nell’illusione che «questa volta è diverso», tutto sarebbe tornato come prima. Mercoledì, l’ennesimo rialzo dei tassi Fed di 25 centesimi e l’indicazione che non è previsto alcun taglio quest’anno hanno scosso solo per qualche ora le convinzioni del mercato.

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