Culture

Michael McDonald, dolce libertà (intervista esclusiva)

Da 'Takin'it to the streets' a 'Sweet freedom' fino all'ultima 'Free a man', il suono libero di un uomo libero. Il 20 marzo alla Volkshaus di Zurigo

Michael McDonald, a Zurigo il 20 marzo, data unica per la Svizzera
9 marzo 2018
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Viene definito ‘yacht rock’ e uno dei brani più rappresentativi è – manco a dirlo – ‘Sailing’ (‘Andare in barca’) di Christopher Cross. È il nome attuale di un genere un tempo noto come west coast sound. Questa sostituzione si deve a una serie online – ‘Yacht rock’, appunto – che ironizza sugli eroi di quell’epopea musicale per via degli intrecci autoriali dei protagonisti, spesso amici nella vita. Potrebbe sembrare sinonimo di ‘musica per fighetti’, per quello yacht residuo di epoche yuppie anni ottanta (almeno sino alla loro metà). Ma le partiture dei suoi autori sono capitoli imprescindibili di pop, soul, smooth jazz, R&B. Scorrendo la lista di artisti e band annoverati in questa nuova classificazione imposta dal bisogno di classificare (quello per il quale Bob Dylan e l’attrice Jennifer Love Hewitt, Melinda Gordon in ‘Ghost Whisperer’, stanno entrambi nella sezione ‘cantautori’), viene da pensare che l’imbarcazione più corretta per ospitare a bordo Eagles, America, Steely Dan, Toto, Fleetwood Mac, Hall & Oates e molti altri esponenti del rock gentile (ma il gentle rock, per l’ansia da classificazione, è già sezione a sé) non sia lo yacht, ma l’arca, ovvero quella struttura galleggiante con la quale Noè salvò capre e cavoli (soprattutto capre).

Se mai, sull’arca della musica da salvare, servisse un Noè, al timone non stonerebbe Michael McDonald. Ex-Doobie Brothers, poi solista, vocalist di fiducia degli Steely Dan, vincitore di 5 Grammy (più altre 8 nomination), corista di lusso in alcuni dei dischi imprescindibili per ogni scaffale di ogni salotto, pietra miliare del blue eyed soul (o soul bianco), altrettanto miliare in ambiti pop, rock e R&B – le cariche sono terminate – Michael McDonald è tornato nel 2017 con un album d’inediti chiamato ‘Wide open’, 17 anni dopo ‘Blue obsession’, con in mezzo un doppio tributo alla Motown e uno più in generale al soul (‘Soul speak’, 2008). L’artista – pianista, tastierista, cantante e autore – suonerà alla Volkshaus di Zurigo martedì 20 marzo (www.allblues.ch), data esclusiva per la Svizzera tutta. Esclusiva come l’intervista concessa alla ‘Regione’.

[...] Perché 17 anni? Una questione di circostanze, nate dai tributi Motown. Questo disco è iniziato 8 anni fa [...]

La voce è quella che, quando è ‘parlato’, sta nel registro quasi grave, a riposare. E quando è ‘canto’ raggiunge vette altissime. ‘Too high’, troppo alte per molti, citando uno dei classici contenuti in due songbook imprescindibili usciti nel 2003 e 2004, ‘Motown’ e ‘Motown two’. Quando risponde, Michael McDonald è somewhere in Florida, in modalità ‘parlato’. La prima domanda riguarda il vuoto di nuove canzoni durato 17 anni. E la Motown, in qualche modo, torna d’attualità. «Questione di circostanze» esordisce. «Torniamo indietro a 6, 7 anni fa, quando iniziai a registrare gli album Motown. A quel tempo avevo molto materiale, molte demo, canzoni che scrivevo in quei giorni, ma che non rientravano in quel progetto specifico. Ho sempre tenuto a che quelle cose non andassero perse. È stato 6, 7 anni più tardi che sono andato a riascoltarle insieme a Shannon Forrest (co-produttore di ‘Wide open’, ndr). Fu lui a dirmi che era tempo per un nuovo album. Si può dire che il disco è nato 8 anni fa, per concludersi soltanto lo scorso anno».

In ‘Wide Open’ c’è tutto il Michael McDonald di cui si ha bisogno, compresa un’inedita divagazione nel blues più classico chiamata ‘Just strong enough’. «Ho scritto quel pezzo con un caro amico, Gary Nicholson, uno dei migliori songwriter di Nashville. Gary ha scritto per Bonnie Raitt e tanti altri grandi artisti» continua McDonald. «È stato uno degli ultimi brani scelti per il disco, ci tenevo moltissimo a che fosse nell’album. Siamo partiti da un demo registrato nel suo salotto e in seguito abbiamo organizzato una session per sentire cosa sarebbe uscito. Grazie a quella canzone ho avuto l’occasione di riunire in un unico pezzo grandissimi musicisti come Warren Haynes e Robben Ford».

[...] Ho amato anche James Brown e Marvin Gaye, ma devo a Ray Charles la mia introduzione alla soul music [...]

Vince Gill, artista di riferimento del country, lo ha definito il punto d’arrivo dell’evoluzione vocale che da Nat King Cole passa per Ray Charles. Non a caso, McDonald è sempre stato «profondamente e rispettosamente fan di Ray Charles sin da quando ero piccolo. Da ragazzino le sue canzoni e i suoi arrangiamenti sono stati un punto di riferimento. Ho amato anche James Brown, Marvin Gaye, ma devo a Ray l’introduzione alla musica soul». Sorride all’idea che i suoi vocals (cori, ndr) per molti valgono quanto un duetto; sorride quando gli chiediamo quante richieste gli arrivano al giorno: «Decisamente molte. È buffo, è una cosa assai difficile da gestire. Da una parte devo stare attento a non farne troppi, anche perché mi piace moltissimo farli. Prima di avere la possibilità di cantare la mia musica, la mia professione è stata quella di corista. C’è sempre una parte di me che non direbbe mai di no, anche perché per anni quel mestiere mi ha permesso di vivere». Sorride ancora, quando gli chiediamo di spiegarci come si senta relegato nella categoria dello yacht rock. Perché, in fondo, west coast sound non era male, e comunque per gente così ci vorrebbe categoria a sé, tipo ‘A-B-C’, o anche ‘Impara l’arte’: «Grazie per la stima. È stato mio figlio a farmi vedere ‘Yacht rock’ in internet. Gli ripeto sempre di non ridere troppo, perché un giorno la musica potrebbe diventare meno rilevante, e questo patetico tasso comico potrebbe tornare inaspettatamente utile».

[...] Durante le sessions di ‘Kathy Lied’ mi sono reso conto di essere al lavoro con una delle mie band preferite di sempre. Era come fossero i Beatles’ [...]

Michael McDonald è un raro caso di pianista che ha cambiato il sound di una band di chitarristi. Lo ha fatto nei Doobie Brothers raccogliendo l’eredità di Tom Johnston (entrato in crisi creativa e psicofisica) e portandoli al Grammy nel 1980 con ‘What a fool believes’ e ‘Minute by minute’, scritte con Kenny Loggins la prima, e con Lester Abrams la seconda. Ma c’è un’altra band alla quale l’artista è spesso affiancato: Steely Dan. È ancora il sogno di molti session men quello di essere chiamati ‘a palazzo’ da Donald Fagen (non più dal compianto Michael Becker, morto lo scorso anno). In più occasioni, incluso lo storico album ‘Aja’, McDonald ha ribadito di aver sudato sette camicie. «Sì, fu un momento durissimo, ma gradevole. Durante le sessions di ‘Kathy Lied’ (era il 1975, ndr) mi sono reso conto di essere al lavoro con una delle mie band preferite di sempre. Era come fossero i Beatles, o Ray Charles. Li avevo adorati per anni e per la prima volta avevo il privilegio di stare in studio con loro. Quelle di Fagen e Becker erano sessions tecnicamente più complesse rispetto a quelle che frequentavo all’epoca, più tarate sul mio background. Steely Dan erano fuori dalla mia religione, musicalmente parlando, e sono stati molto educativi, anche in funzione della scrittura della mia musica».

[...] Non è il momento di portare indietro le lancette del tempo. ‘Make America Great again’ è una delle cose più tristi che possano accadere. Bisogna guardare avanti. È un processo di fede [...]

La leadership artistica di Michael McDonald nei Doobie Brothers ha un titolo: ‘Takin’it to the streets’ (1976), una di quelle composizioni che sembra esistano da sempre. Sensazione non così distante dal rapporto che il suo autore ha con la propria ‘creatura’. «Quando guardo indietro, ho la sensazione che quella canzone abbia sempre abitato il mio subconscio e sia cresciuta al suo interno. Sono nato a Ferguson, Missouri, e nel pezzo ci sono dinamiche che vengono da quel posto. All’epoca la gente era tagliata fuori dal punto di vista sociale ed economico, si era arresa. Ferguson era una specie di Mayberry (utopica città di fantasia di fine anni 60 uscita dalla sitcom ‘The Andy Griffith show’, ndr) che dietro la facciata impeccabile e perbenista nascondeva il suo segreto oscuro, il razzismo. Una domanda è sempre stata nella mia mente: cosa direi se fossi quella persona alla quale sono negati i diritti umani di base e la possibilità di vivere coltivando i propri sogni, calata in un ambiente ostile, privata delle possibilità che hanno tutti per nessun’altra ragione se non il colore della pelle?».

L’autore non è McDonald, ma un filo, nemmeno troppo invisibile, lega ‘Takin’it to the streets’ a ‘Free a man’, su ‘Wide open’. «Decisamente. L’ha scritta un caro amico, Richard Stekol. Ho amato quella canzone dal primo momento in cui l’ho ascoltata. È la realtà sbattuta in faccia, quella di essere ancora lontani dalla piena applicazione della nostra costituzione. Abbiamo fatto tanta strada, ma non è per niente il momento di portare indietro le lancette del tempo. ‘Make America great again’ e una delle cose più tristi che possano accadere. Bisogna guardare avanti. È un processo di fede, che comincia dall’imparare ad apprezzare i valori di un altro essere umano».

[...] Non abbandoniamo mai il desiderio di essere capiti, ascoltati, la volontà di fare la differenza nella vita di qualcuno [...]

Il Nostro sta suonando in Florida, nei giorni di questa intervista. E non è trascorso molto tempo dalla strage di Parkland. «Credo fermamente che in questo momento l’America stia vivendo una profonda crisi d’identità. Celebriamo la libertà confondendola con cose che non hanno nulla a che fare con essa. Siamo stati sedotti da interessi corporativi a credere che, non si sa in quale modo, possedere un fucile, almeno per un segmento della società, sia un diritto divino. L’altro problema è che è troppo facile procurarsi un’arma. Dovrebbero esistere le stesse restrizioni che esistono quando si guida un’auto, o quando si compra una medicina...».

Chiediamo un paio di dritte sul concerto in programma a Zurigo. «Suoneremo quello che pensiamo la gente si attenda, comprese alcune cose dall’ultimo disco. Non mancheranno quelli che oggi sono classici, ma che già lo sono stati cinquant’anni fa. Siete tutti liberi di cantare, naturalmente». Poi gli confessiamo che abbiamo atteso 17 anni per ascoltare ‘Hail Mary’, il brano che apre l’ultimo lavoro, e continuiamo a pensare che ne sia davvero valsa la pena. «È un brano che sento molto. Dentro ci sono una donna, un uomo e un pensiero con il quale convivo, e cioè la convinzione che non abbandoniamo mai il desiderio di essere capiti, ascoltati, la volontà di fare la differenza nella vita di qualcuno. Pensavo che a 66 anni mi sarei addormentato davanti alla televisione, ma mi sono accorto che è molto diverso da come avevo immaginato. A 66 anni vivi ancora la tua vita e ancora cerchi di essere importante per qualcuno. E cerchi di dargli felicità, giorno dopo giorno».

 

 

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