L'analisi

Usa, autunno della democrazia

12 dicembre 2016
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Dopo l’ubriacatura elettorale, l’America si ritrova in una profonda crisi istituzionale. L’“affaire” delle ingerenze russe nella campagna ne è solo l’ultimo capitolo. Da gennaio il Paese sarà guidato da un presidente eletto dalla minoranza degli elettori. È la seconda volta dal 2000. Ma la vittoria di Hillary Clinton nel voto popolare (i sondaggi qui ci avevano in realtà azzeccato) è questa volta netta: sfiora i 3 milioni di voti, oltre il 2%. Il sistema dei grandi elettori, creato 229 anni fa quando i padri fondatori cercavano modalità per far coesistere 13 Stati, non risponde più alla realtà contemporanea. E non sono in pochi ora a chiedere al collegio elettorale di non votare per Trump ma di eleggere, il 19 dicembre, un outsider. Ad avvelenare il clima del post-voto c’è ovviamente la personalità stessa del tycoon, considerato un autocrate aggressivo e borioso. Le tensioni sono alimentate anche dalla convinzione che a contribuire all’esito delle presidenziali sia stata una disinformazione massiccia via social, dai siti più oltranzisti (tra cui Breitbart news, il cui fondatore S. Bannon è stato premiato con nomina nello staff Trump) a quelli “spazzatura” gestiti da oscuri personaggi, dagli Usa fino ai Balcani. Sappiamo ora che il fango informativo delle ‘fake news’ è stato in buona parte versato (secondo il ‘Washington Post’ che anticipa l’inchiesta della Cia) dalla Russia. Mosca avrebbe fornito a Wiki-leaks materiale poi utilizzato per screditare la candidata democratica, notoriamente invisa a Putin. Già lo si sospettava, vista la tempistica delle rivelazioni presunte di Wikileaks. Democrazia indebolita per l’interferenza dell’antagonista russo. Ma anche per il grossolano mancato rispetto degli impegni elettorali. Ricordate? Il magnate aveva tuonato contro l’establishment, contro la finanza di Wall Street, proponendosi come l’antagonista del big business. Oggi, la lista delle “nomination” annunciate alla Trump Tower vede svettare personalità di una delle maggiori e più controverse banche di investimento al mondo. Il cui Gotha entra di prepotenza alla Casa Bianca. Sarà lei, la Goldman Sachs, con Gary Cohn, il suo presidente, a dirigere l’economia del Paese, mentre il Tesoro è stato affidato a un altro suo big, Steven Mnuchin. Quanto alla politica estera, sarà probabilmente gestita da Rex Tillerson, amico di Putin (guarda caso), numero uno del colosso petrolifero Exxon Mobil. Nel concitato dopo voto, la culla della democrazia moderna si presenta traballante e con la poco edificante immagine di notabili repubblicani in pellegrinaggio alla Trump Tower, vera reggia presidenziale, a mendicare nomine presso l’uomo che fino a poco fa consideravano incompetente e inadatto. Il declino democratico raggiunge infine il suo acme nel contesto dell’equilibrio dei poteri. Il ‘balance of power’ rischia di essere azzerato con la nomina alla Corte suprema di un candidato trumpista puro: non vi sarebbero virtualmente più argini allo strapotere del candidato che la maggioranza degli americani non ha voluto. Strada spianata a qualsiasi deriva. La malattia della democrazia americana rischia di non essere passeggera. La “terra dei liberi e la patria dei coraggiosi”, come recita l’inno nazionale, è oggi un Paese malato nelle sue istituzioni. E la più vecchia democrazia dell’epoca moderna è oggi chiaramente da ripensare.

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