Commento

Una soglia già varcata

3 dicembre 2016
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Su una cosa Matteo Renzi ha ragione: con il referendum costituzionale di domani non si determineranno tanto le sorti della sua vicenda politica, del Pd o del suo governo, ma qualcosa di ben più grave. Ha ragione (il Pd è già sfasciato, e i governi passano) anche se le sue parole vorrebbero dire altro, e anche se qualcosa di grave, di epocale, è già in corso o è già avvenuto.
La consultazione, semmai, lo ha portato in luce nella forma più triviale: la fine della politica come la si è conosciuta nel lungo dopoguerra (di cui la Costituzione, in Italia, era il sigillo più nobile) e l’avvento di nuove forme di raccolta e rappresentazione del consenso, nate e plasmate sullo sfascio del modello sociale novecentesco. Forme che niente hanno a che fare con la democrazia e molto con le pulsioni autoritarie che nelle crisi trovano principale e ricchissimo alimento. In Italia e altrove, com’è noto.
Su questo sfondo, il referendum è una disputa marginale che si è trasformata nel cerino gettano nel bidone della benzina. Una riforma sollecitata ed esibita come messa in archivio di una politica screditata e delle sue procedure farraginose, a vantaggio della “governabilità” e dei tagli alle spese, si è rivelata un pastiche di ben scarsa plausibilità, il cui elemento più riconoscibile (associato a una legge elettorale scandalosamente premiale) è un rafforzamento dei poteri dell’esecutivo. Spacciata per una manovra anti-casta e, specularmente, accusata di essere clava della casta stessa. Fate un po’ voi.
E il modo in cui l’Italia è arrivata al voto conferma il disastro. Il discorso populista è sulle bocche, indistintamente, del capo dell’esecutivo e dei suoi più feroci avversari, dalla vitalissima estrema destra alla fossilizzata estrema sinistra.
Contro la civiltà del confronto hanno agito la pochezza della ministra per le riforme Boschi (degnamente succeduta nel ruolo a tali Bossi e Calderoli…); la malafede di Berlusconi e dei suoi accoliti residui; il livore dei falliti dalemiani; il qualunquismo di Grillo e delle sue ignorantissime avanguardie; le fanfaronate truci dei Salvini e dei suoi rincalzi fascisti; l’imbarazzante isteria dei no à la MicroMega.
In una temperie tanto degradata è toccato sentire che la riforma attenterebbe alla democrazia, con la stessa seriosità con cui si è detto, al contrario, che è necessaria per metterla in salvo. Gli argomenti utilizzati dall’una e dall’altra parte (persino da persone di onorabilissima biografia) sanno di populismo in uguale misura. Si sono visti i panni di “difensore della Carta” indossati dagli eredi del neofascismo stragista; si sono messi di mezzo i “partigiani” (pochi quelli veri, sterminato il numero di quelli d’adozione) tradendo valore e complessità storica della Resistenza. Si sono vantati i risparmi generati dalla riforma, come se una Costituzione si riformasse per risparmiare qualche milione di euro. Si è denunciata la riforma quale grimaldello per spalancare le porte allo strapotere della finanza planetaria, quasi che la resa incondizionata della politica e poi delle democrazie al primato del capitale globale non fossero avvenute da tempo, vigente la Costituzione del 1948, e ovunque.
È troppo, davvero. Anche perché la più prosaica delle ragioni per cui votare sì o no è Renzi stesso. Il voto di domenica, infatti, per sua scelta deliberata e sconsiderata, si è trasformato in un plebiscito, non certo su una malfatta riforma della Costituzione, ma su di lui. Anche chi vorrebbe sottrarsi a questa trappola, sa che il proprio sì o il proprio no finiranno per non avere altro significato. Superfluo, oltretutto: la soglia che dà sull’epoca dell’autoritarismo populista è stata ormai da tempo varcata.

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