L'analisi

Una Palestina di troppo

18 febbraio 2017
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Di due Stati, uno è di troppo ed è la Palestina. Questo e non altro potevano significare le stolte parole di Donald Trump quando, per compiacere il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu, ha detto che “uno Stato o due Stati”, per lui non fa differenza.
Un’affermazione che non solo rivela un’abissale, spudorata ignoranza di quanto avviene in Medio Oriente, ma che, contemporaneamente, cancella tutto quanto ha fatto (e non ha fatto) la diplomazia statunitense dal 1993 a questa parte. Da quando cioè furono firmati gli “accordi di Oslo”, i primi sottoscritti da israeliani e palestinesi, e considerati validi da tutte le amministrazioni americane che si sono succedute da allora, democratiche o repubblicane.
La cosiddetta “soluzione dei due Stati” aveva origine in quegli accordi: due Stati, l’israeliano e il palestinese, uno accanto all’altro, sicuri e in pace. Che quella non fosse “la” soluzione era ben noto anche a chi quell’intesa sostenne. Troppe e troppo importanti le materie rinviate a negoziati successivi: a partire dai confini delle due entità, alla forza che le avrebbe vigilate, al destino delle colonie ebraiche nei territori occupati. Sullo sfondo, oltretutto, di una inarrestabile – e mortale per gli accordi stessi – colonizzazione ebraica della terra palestinese. Fatto sta che per la prima volta un documento comune accertava e accettava il reciproco diritto ad esistere e abbozzava quale potesse esserne il modo. E di quanta importanza fosse quell’accordo lo testimoniò il sacrificio di Yitzhak Rabin, che l’aveva firmato e che per questo venne ucciso da un estremista ebreo.
Per Trump fa lo stesso. Per Netanyahu no. E nemmeno per le sorti di Israele e, di conseguenza, dei palestinesi.
Del primo si è detto. Al secondo, che sull’ignoranza di Trump fa leva, si attaglia bene la definizione che un sionista convinto come Bruno Segre ha dato dell’attuale classe di governo israeliana, parlando di “gretta arroganza”. Campione (e un po’ ostaggio) della destra nazionalista e religiosa, al cui fiorire non è estranea l’importante immigrazione dall’ex Urss, Netanyahu ha scommesso sull’irreversibilità del processo di colonizzazione: utilizzando sul terreno l’esercito e le macchine da scavo; a Gerusalemme una Knesset in mano agli estremisti; e nelle sedi internazionali il sempre buon argomento della “guerra al terrorismo”. Con il cosiddetto “campo della pace” ridotto quasi al silenzio, e in un contesto di destabilizzazione regionale tutto sommato favorevole, Netanyahu vede la strada aperta davanti a sé.
Dove porti quella strada non è chiaro, ma molti segnali indicano come traguardo il disastro. Quando Israele avrà sotto il proprio controllo ancor più territori palestinesi, gli riuscirà difficile mantenere la finzione che oggi gli consente di non rispondere agli obblighi internazionali in quanto potenza occupante, ma questo è il meno. Quando (e se) Israele in quanto Stato si sarà esteso sino al Giordano, dovrà cominciare la conta dei giorni che mancheranno alla fine del proprio carattere ebraico e della fisionomia democratica che pure lo distingueva in quell’area: i cittadini ebrei (nonostante l’elevato tasso di natalità tra gli ultraortodossi) si ritroveranno in minoranza e se vorranno salvaguardare il “carattere ebraico” di Israele e continuare a essere “padroni del proprio destino” potranno soltanto introdurre un sistema di apartheid, o provvedere con una “pulizia etnica” a “liberarsi” dei palestinesi. L’una e l’altra soluzione moralmente infami e politicamente sciagurate. Destinate in ogni caso a condurre alla rovina chi le imporrà. Ma Trump non sarà già più presidente…

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