L'analisi

Un muro attorno

(Emilio Morenatti)
20 ottobre 2017
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Il 10 ottobre scorso, il Parlamento di Barcellona “non dichiarò” l’indipendenza, ma lo farà se il governo spagnolo deciderà di applicare l’articolo 155 della Costituzione, che consente di sospendere l’autonomia catalana. Ed è probabile che vada così, dopo che Carles Puigdemont ha risposto con queste parole “definitive” all’ultimatum imposto da Mariano Rajoy. Viene il momento, in talune contese, in cui le ragioni delle parti che le disputano si subordinano (o piuttosto soccombono) infine ai fatti, alla irrimediabile meccanica azione-reazione. Ed è a questo punto che si trova il confronto tra separatisti e stato spagnolo: per ponderati che potranno essere, i prossimi passi dei contendenti conteranno ormai soltanto per ciò che produrranno, e non per la fondatezza o la condivisibilità della loro ispirazione.

Era probabilmente ciò a cui puntava la dirigenza separatista catalana, non si può dire ora con quale avvedutezza. Ed era forse il calcolo di Rajoy, apparentemente più interessato a ottenere la resa dell’avversario che a confrontarsi sul terreno in cui la sua propaganda ha messo radici.

Bisognerà ripetere ancora una volta che – vista da qui – la Catalogna non è un Kurdistan, non il Kosovo pre-indipendenza, ma una delle regioni più prospere d’Europa, con una propria assemblea legislativa, una propria polizia, i cui cittadini parlano, se vogliono, la propria lingua a casa, a scuola, nelle sedi ufficiali. Non abbastanza, tuttavia, per non far sentire meno della metà dei sui abitanti (anche grazie a una decennale pedagogia identitaria) un popolo oppresso. Ma anche non abbastanza perché possiamo accettare acriticamente che lo sia.

Tuttavia, ricondurre la vicenda di una collettività a una esclusiva questione di ordine pubblico o di legalità costituzionale è stato un errore capitale, una colpa, di Mariano Rajoy, che ha preteso di negare non soltanto la legittimità, ma l’esistenza stessa di ciò che stava avvenendo sotto i suoi occhi, salvo non assumerne l’onere.

Così, adesso, ovunque si volga lo sguardo – ha scritto il filosofo catalano Josep Ramoneda – si vede un muro. Il più che probabile avvio della procedura di applicazione del 155 indurrà la dirigenza separatista (quella non finita in carcere) a puntare su una sollevazione della piazza. E hai un bel dire che si tratterà di un appello gandhiano. Un dire cinico, piuttosto: ogni movimento di fondazione di una sovranità sa bene che niente ne solidifica il mito quanto un “martirio”. Questo non significa che Puigdemont e i suoi lo stiano cercando, ma che lo abbiano messo in conto è certo. Diversamente – citiamo ancora Ramoneda – non si spiegherebbe la continua ricerca di “soluzioni fantasiose per prolungare il gioco”.

Gioco che tuttavia avrà vita breve. Lo stato spagnolo dispone di forza sufficiente a fermare il processo di secessione. La utilizzerà e, se le cariche di polizia alle urne del primo di ottobre valgono da precedente, lo farà senza ritegno. Rajoy vincerà, e il risentimento separatista troverà, di nuovo, nella propria sconfitta il terreno più fecondo per tornare a crescere.

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