Commento

Senza i paraocchi dell’ortodossia

13 febbraio 2017
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Pensata e voluta per ‘normalizzare’ la Svizzera a livello internazionale dal punto di vista fiscale, la Riforma III dell’imposizione delle imprese è diventata nel corso della campagna (squilibrata a favore del ‘sì’, a giudicare dalle forze scese in campo e con mezzi finanziari decisamente importanti) oggetto di dispute politiche squisitamente interne e dal sapore antico. Per tutta la contesa referendaria e, prima ancora, durante i lavori di commissione e parlamento, si è riacceso il dibattito tra destra e sinistra, o meglio tra chi propendeva per uno Stato più leggero e chi invece vedeva nella riforma tributaria  la continuazione di politiche genericamente etichettate come ‘neoliberiste’. Un dibattito a volte a parti rovesciate dove la sinistra, che ha lanciato il referendum, si è trovata suo malgrado a difendere i privilegi fiscali di holding, società di sede e miste. Statuti fiscali speciali che violano di fatto la parità di trattamento tra contribuenti e innescano una concorrenza fiscale giudicata sleale a livello internazionale. La posizione di Ocse e Ue a riguardo è nota da tempo: le critiche riguardano l’imposizione ridotta dei redditi conseguiti all’estero da società holding, di domicilio e miste. La destra però in parlamento è andata al di là dell’eliminazione pura e semplice di questi statuti, prevedendo altri strumenti giuridici (patent box, per esempio), deduzione degli interessi figurativi sul capitale investito e lasciando ai singoli Cantoni altre misure di sgravio fiscale – questa volta per tutte le società, anche per quelle che operano sul mercato interno – per evitare che queste imprese traslocassero versi altri lidi. Possibilità non remota visti i venti che soffiano sia da oltre Manica (la Brexit ‘competitiva’), sia da oltre Atlantico (il presidente Trump ha promesso vigorosi tagli alle aliquote sugli utili delle società). A preoccupare però i cittadini svizzeri, più che l’acuirsi di ‘guerre tributarie’ internazionali, è stata più prosaicamente la possibilità molto concreta di un’ulteriore stagione di concorrenza fiscale al ribasso tra i singoli Cantoni. Concorrenza sbilanciata a favore delle grandi imprese, ma a danno del ceto medio il quale, grazie alle politiche di sgravio fiscale, avrebbe visto assottigliarsi i servizi e le prestazioni sociali di Cantoni e Comuni – questi sì molto prossimi. Inoltre, il fatto che le principali organizzazioni economiche si fossero schierate compatte a favore della riforma ha acceso più di un sospetto nei confronti della proposta. Si è ripetuto, per certi versi, il meccanismo sociale accesosi sull’iniziativa contro l’immigrazione di massa di tre anni fa: una certa latitanza della politica o meglio dei partiti, ma un forte attivismo – a conti fatti controproducente – di Economiesuisse e Usam, su tutte. In un’epoca in cui ‘l’anti-establishment’ è di moda, il risultato appare scontato. Anche le prese di posizione di Eveline Widmer-Schlumpf, ex consigliera federale e ‘madrina’ della riforma, e di Christian Wanner, ex presidente della Conferenza dei direttori delle finanze cantonali, hanno fatto probabilmente pendere l’ago degli indecisi verso il ‘no’. Si tratta di due esponenti politici ‘borghesi’ che hanno avuto il coraggio di prendere le distanze dalla maggioranza di un parlamento che su temi economici e finanziari ragiona spesso con i paraocchi dell’ortodossia. Una maggioranza parlamentare che, almeno in questa occasione, non rispecchia l’orientamento della popolazione. Ora al governo rimangono una ventina di mesi per presentare normative compatibili con gli standard internazionali, nonostante il consigliere federale Ueli Maurer, titolare del dossier, abbia sempre affermato che non ci fosse un piano B. In politica, che è l’arte del possibile, dovrebbe sempre esserci. Le minacce di ritorsioni ‘finanziarie’ non dimostrano grande maturità politica.

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